Nel corso delle ultime settimane si è dibattuto a lungo, su scala globale, di come le aziende siano sempre più responsabilizzate – da clienti, dipendenti o da qualsiasi cittadino in tempo di crisi – a dimostrare di possedere concretamente quello human touch che da diversi anni ne anima i purpose, le vision e/o le value proposition. Che non significa risciacquare nel pianoforte uno spot in televisione o rendere empatico o amichevole un tono di voce sul web, ma identificarsi con e nelle persone sia in senso metaforico sia in senso letterale. Modificare, cioè, il proprio codice genetico da un DNA commerciale a un DNA relazionale.
Già a fine 2018, in tempi non sospetti rispetto alle urgenze innescate in tal senso dal Covid-19, una ricerca di Accenture Strategy ammoniva che il 47 percento degli utenti abbandona un brand se viene delusa dal suo comportamento sociale e, di questi, il 17 percento è perso per sempre. Diciotto mesi e una pandemia più tardi, secondo l’ultimo Trust Barometer di Edelman, quel 47 percento è diventato un 69 percento e quel 17 percento è diventato un 25 percento. E il sospetto è che, con gli scenari economici che si configureranno nell’immediato futuro, il trend possa avere ulteriori margini di crescita.
L’alfa e l’omega
Per questo, mai come oggi il processo di identificazione delle marche con e nelle persone è destinato a rafforzare il valore di mercato di due figure chiave della nuova comunicazione d’impresa: gli influencer e i brand ambassador. Spesso oggetto di ambiguità e similitudini, rappresentano in realtà due modelli antitetici (ma complementari) per attribuire a un’azienda un corpo e un’anima: più superficiale, strillato e tattico quello dell’influencer; più profondo, intimo e strategico quello del brand ambassador. Il primo è orientato a ispirare le storie del pubblico; il secondo è orientato a raccontare le storie del brand. L’uno mette la professionalità al servizio di un prodotto; l’altro mette una professione al servizio della produttività.
Per l’influencer l’obiettivo è avere un guadagno; per il brand ambassador il guadagno è avere un obiettivo.
Ed è anzitutto questo l’aspetto che chi si occupa di Marketing e/o di Employer Branding deve prendere in considerazione per decidere su quale dei due sia opportuno investire: la scelta di un influencer parte dal quanto e arriva al chi, quella di un brand ambassador parte dal chi e arriva al come.
Un influencer impone di avere un budget, un brand ambassador impone di avere un progetto. Il primo viene abilitato e arruolato all’occorrenza; il secondo è già spontaneamente a bordo, che si tratti di un consumatore fidelizzato o di un employee soddisfatto.
L’impero e la gloria
Certo: dire di fare qualcosa con gli influencer (tanto più se l’hanno già fatta con qualcun altro, magari anche un diretto competitor) abilita oggi un percepito di sé apparentemente più sexy rispetto al dire di avere un programma per i brand ambassador. Il che spiega, sulla base di un report dell’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing, perché il 19,5 percento delle imprese li utilizza a scopo di awareness e il 18,3 percento a scopo di brand reputation, mentre solo il 7,3 percento li utilizza come driver di acquisto.
Se incrociamo questo dato con le tipologie di attivazione più praticate (per il 21,6 percento semplice product placement) e i canali più presidiati (per l’83 pecento Instagram) ci appare evidente come, rispetto alla loro originaria fisionomia di opinion leader, gli influencer siano diventati i nuovi testimonial. Da creatori di contenuto si sono trasformati in prestavolto, spostando l’attenzione dal messaggio all’immagine e dalla funzione alla forma.
Ma una simile deriva, nell’ottica di identificarsi con e nelle persone, non fa che allontanare progressivamente loro stessi e i brand dai rispettivi target di riferimento, tanto che solo il 4 percento degli utenti ritiene ancora autorevole ciò che pubblicano.
Diverso, invece, è il discorso per i brand ambassador. Scorrendo, a titolo di esempio, le esperienze degli agenti Folletto o dei dipendenti di Accenture, Costa Crociere e Intesa Sanpaolo, ci appare evidente come riflettano non soltanto la narrazione della loro azienda ma quella di ciascuno di noi.
Nelle loro esperienze troviamo un vissuto quotidiano in cui viene naturale calare e ritrovare il nostro, e che ci porta inevitabilmente a fidarci di più di quanto non ci fidiamo (o ci fideremmo) di un influencer. Con risultati più confortanti sotto qualsiasi punto di vista: non da ultimo, quello dei profitti.
Il tempo e il denaro
E proprio il ROI è il secondo aspetto che deve essere preso in considerazione per decidere su quale dei due sia opportuno investire.
L’ingaggio di un influencer può arrivare a costare da qualche centinaio di euro per collaborazione a oltre un migliaio per singolo post. È chiaro che, di fronte a queste cifre, chi si occupa di Marketing e/o di Employer Branding non può accontentarsi di una manciata di like e di follower. Occorre fissare, tracciare e misurare KPI quantitativi e qualitativi che abbiano un’incidenza e una ricaduta concreta in termini di business, anche laddove l’obiettivo è l’awareness o la brand reputation.
Lo stesso vale (ovviamente) per un brand ambassador, rispetto al quale, tuttavia, subentrano logiche di pianificazione molto diverse e quasi mai legate esclusivamente a un coinvolgimento estemporaneo mordi e fuggi. A un influencer è legittimo chiedere un ritorno consistente a breve termine; a un brand ambassador è legittimo chiedere un ritorno costante a medio e lungo termine.
All’approfondimento di questi temi, attraverso la condivisione di best practice metodologiche e di casi studio operativi, è dedicato il webinar Brand ambassador, investire sulle persone per far crescere le imprese. Per capire come generare utile per la tua azienda e per il tuo brand traducendo il capitale umano di cui disponi in un concreto vantaggio competitivo.
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