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In crisi anche Slashdot.org?

29 Ottobre 2001

In crisi anche Slashdot.org?

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La nota comunità open source annuncia l'arrivo di inserzioni giganti con quote d'abbonamento, provocando proteste e preoccupazioni.

L’industria high-tech indietreggia, lo stesso accade al mondo Linux. Una crisi che non risparmia neppure siti ormai affermati, a metà strada tra fonte d’informazione e comunità di utenti. È il caso del noto Slashdot.org, luogo privilegiato per le “news for nerds” nonché per animate discussioni a tutto tondo sull’open source e quant’altro. Ebbene, qualche giorno fa il fondatore Rob Malda ha colto un po’ tutti di sorpresa. Da inizio 2002 arriveranno inserzioni formato gigante, e per chi non vorrà sorbirsele scatterà l’abbonamento annuale. Manovra comprensibile a garanzia della sopravvivenza, anche se la discussione subito apertasi non ha certo risparmiato critiche e preoccupazioni. Ma soprattutto, un’altra buona occasione per dibattere, a cielo aperto e tra utenti ultra-scafati, il futuro dei siti indipendenti nel bel mezzo del riflusso digitale.

“Slashdot continua ad ingrandirsi: negli ultimi mesi il traffico è cresciuto del 10 per cento, e i soli banner in testa ad ogni pagina non bastano per tenerci a galla di fronte a questi ritmi di crescita. E vendere inserzioni nel 2001 è divenuto incredibilmente più arduo di quanto non fosse nel 1999.” Questa la premessa introduttiva con cui Rob Malda arriva a presentare le prossime contromosse. Presto ogni contributo pubblicato vedrà l’inserimento di “quegli enormi quadrati” di pubblicità che già appaiono in rinomati siti quali CNet o ZDNet. Decisione impopolare “per molta gente, compreso il sottoscritto,” si affretta ad aggiungere il co-fondatore del sito, spiegando che per disattivare tale pubblicità bisognerà pagare una quota d’abbonamento. L’ammontare di quest’ultima non è stato ancora stabilito, ma pare certo che l’operazione prenderà il via all’inizio del nuovo anno. Iniziativa necessaria per far fronte alle crescenti spese gestionali (250.000 gli utenti regolari) e per continuare a vivere nonostante la crisi del settore. “Siamo qui da quattro anni, e vorrei ancora esserci fra altri quattro anni,” conclude Rob Malda, aprendo le danze per le successiva discussione senza rete — incluse le inevitabili “flame”.

Come previsto, a circa una settimana dal messaggio originale, si è giunti a quasi 250 testi inseriti, con ogni genere di posizioni e supposizioni. Una delle più dibattute riguarda il fatto che gran parte degli utenti normalmente blocca l’apparizione di banner sul web, e nonostante tutto si dichiara pronta a far lo stesso con Slashdot. Anche perché parecchi tra loro, per lo più sviluppatori e fan del mondo Linux, ne sanno abbastanza per poter disattivare comunque la pubblicità e accedere tranquillamente all’intero articolo desiderato. Ergo, com’è tipico per l’ambito open source, la discussione si è presto spostata sul rapporto tra le libertà individuali e le imposizioni delle testate online. Qualcuno ha ad esempio sostenuto che “nessun sito ha il diritto di costringermi ad accettare la presenza di immagini sul computer, senza che io abbia alcun controllo su di esse.” Ciò anche sulla base del fatto che storicamente Slashdot è stato tra i primissimi a difendere in pieno la tutela della privacy e i cyber-rights. Qualcun altro ha ribattuto che, pur non essendo illegale bloccare le inserzioni, in generale non è eticamente corretto, meno ancora per questo caso. Se non si vuol pagare l’abbonamento, meglio rinunciare a visitare quel sito. Cosa che più d’uno ha detto di fare ora per CNet, tra i primi diversi mesi fa a proporre inserzioni in formato gigante.

Va notato che il trend sembra ottenere un certo successo, come conferma l’agenzia Nielsen/NetRatings: i cosidetti “skyscraper ad” (inserzioni-grattacielo) provocano una maggiore quantità di clic. C’è tuttavia chi ritiene ciò null’altro che conseguenza della novità del fenomeno, destinato a scemare non appena gli utenti si saranno assuefatti anche al formato più grande, finendo così per ignorarli al pari della stragrande maggioranza dei comuni banner. Vista la caduta a picco delle inserzioni, stavolta ci si prova offrendo all’utente un impatto più deciso con una serie di informazioni più ampie e specifiche. In realtà, è ancora l’economia dell’attenzione al centro della questione. Come spiegano gli esperti della stessa agenzia, resta ancora da stabilire se tali inserzioni potranno davvero “indurre una maggiore coscienza del prodotto, obiettivo centrale di gran parte del mercato pubblicitario.”

Sulla scia di altri grossi nomi che volenti o nolenti hanno optato per simili operazioni — tra cui New York Times, Wired News, Salon — è a quest’ultimo che si rifà il modello proposto da Slashdot: il lancio di quota di abbonamento (non ancora definita) consentirà di scavalcare ogni pubblicità. Nei messaggi online, ci si chiede se la cifra sarà sui 30 dollari di Salon ed altri, col rischio possa risultare più salata a tutela della impavida bravura tecnica dell’utenza. Qualcuno si dice disposti a sborsare non più di “pochi, uno o due, dollari.” Non mancano certo i pieni sostenitori, ricordando tra l’altro la crisi generale che attanaglia anche il giro open source, tra cui rischiano grosso altri siti importanti come Freshmeat e Sourceforge. “La fine è vicina, e non mi piace per nulla,” si legge in un testo.

La decisione presa ora dallo staff conferma la presenza di acque agitate per le comunità indipendenti su Internet. Pur facendo parte della scuderia VALinux, Slashdot opera infatti in maniera autonoma, con la casa-madre alle prese delle sue gatte da pelare. In tal senso, recentemente Slashdot aveva già avviato mosse di “consolidamento”, tramite partnership con Digital Paths per l’offerta dei propri contenuti sui Palm e con Quios per dispositivi altri palmari. Mentre la discussione prosegue, resta da vedere come si svilupperanno gli eventi. E incrociamo le dita.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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