Nimboo è un gruppo di sviluppatori che propone una nuova modalità di lavoro in rete, basato su un’efficace banca del tempo e legato da forti interessi comuni, nel tentativo di portare nel mondo reale alcune delle scoperte organizzative del Web 2.0. Queste stesse scoperte potrebbe essere il volano per la crescita delle startup italiane sul web. Ne parliamo con KiaroScuro e Hyperstruct, due dei membri che la compongono, che utilizzano per scelta il proprio nickname anche in questa occasione. Chi è Nimboo e di cosa vi state occupando in questo momento?
KiaroScuro: siamo un gruppo di sviluppatori che esplora modalità di lavoro networked (in rete), creando strumenti nuovi e dando vita a iniziative di collaborazione con altri gruppi e persone. Abbiamo iniziato a dare forma a questa idea circa sei mesi fa presentandoci come Nimboo.
Mi dite qualcosa del vostro background personale? Da quali esperienze venite?
Hyperstruct: Il gruppo che compone Nimboo è costituito da profili variegati, c’è lo studente come il consulente. Io personalmente vengo da un oscuro passato di system administration e ora sono nella consulenza/sviluppo software per il web e nella messaggistica istantanea.
KiaroScuro: Io ho lavorato sia nel campo della ricerca su applicazioni di collaborazione distribuita che in campi corporate più tradizionali. Come dice Max, i background sono molto variegati e vediamo in questo un grande punto di forza.
Cosa vi accomuna tanto da portare alla nascita di Nimboo? E cosa è Nimboo?
K: Nimboo nasce dell’esigenza di avere un’ampia rete di competenze. Questa rete a sua volta ci da il coraggio di affrontare esperienze che come singoli forse non affronteremmo con tanta facilità. Non siamo ancora una società, ma piuttosto qualcosa di simile ad un’alleanza distribuita (qualcuno ci definisce un “fight club” clandestino dove i professionisti by day sfogano il loro estro by night).
H: Pensiamo a Nimboo come un gruppo, e sottolineo gruppo perchè nella parola “gruppo” non si perdono le individualità.
Bene, come si rapporta Nimboo al mercato? Come possono società terze interfacciarsi e chiedere il vostro aiuto?
K: Ci sono diverse modalità per questo. Da una parte ci impegniamo su progetti di cui siamo innamorati. Tramite alleanze con altri gruppi e spin-off, questi progetti vengono portati avanti quasi come entità a se stanti. Un esempio di questo tipo è TheRubyMine, dove collaboriamo con la comunità rubyista italiana e nello specifico i ragazzi di altre società come SeeSaw, GridLab e Interact. Dall’altra parte, il nostro particolare mix di competenze e la nostra cultura geek ci portano a venderci molto bene come prototype company. Hai un’idea, un sogno da realizzare e la volontà di ingaggiarci per prototiparlo? La nostra struttura si presta molto bene. Infine se si ha più semplicemente bisogno di un grafico, un db super ottimizzato e un lavoro di fino sull’interfaccia utente, abbiamo ottimi contatti e colleghi da consigliare.
Questo modello funziona solo per prototipi o anche per applicazioni complesse e robuste?
H: Il prototipo non esclude, anzi prelude all’applicazione completa. Il nostro focus è sul prototipo proprio perchè è la fase critica quella dove sovente si decide se ci sarà un’applicazione reale. Ovviamente questo non significa lasciare a piedi un partner dopo un prototipo.
K: Esatto. È nella fase prototipale che si incontrano le criticità ed è qui che un mix di competenze come il nostro può risolvere il problema. Di norma però, cerchiamo di farci coinvolgere solo in progetti interessanti.
Supponiamo ora che il prototipo sia efficace e che io azienda voglia lanciare un vero prodotto/servizio sul mercato. Come si procede?
H: Giunti a questa fase, può entrare in gioco la rete di competenze.
K: Esatto. Fanno parte del nostro gruppo anche professionisti che hanno la loro attività di consulenza e possono farsi carico di lavori più tradizionali e quotidiani. Inoltre abbiamo rapporti con aziende caratterizzate da una cultura di sviluppo simile alla nostra e che sono in grado di farsi carico di questi lavori.
Quali sono però i costi da sostenere? Ad esempio, la realizzazione del prototipo ha un costo?
K: Non necessariamente: si può pensare anche a delle partecipazioni incrociate. I costi in generale dipendono dalle modalità di lavoro. Se si tratta di un lavoro one-time chiaramente sì. Se si tratta di un’operazione di comune interesse possiamo pensare a delle partecipazioni. Creando una rete di interesse attorno a un progetto, una massa critica ottenuta tramite co-partecipazione, si produce un senso di ownership condivisa ed una community che possono dare lo slancio necessario a partire
Questo tipo di organizzazione a quale esigenza risponde e come è possibile garantire la qualità ed i tempi del risultato?
H: Qui andiamo a toccare un discorso più ampio. Le necessità di un progetto non sono unicamente tecniche. Dietro un’applicazione di successo c’è per esempio una forte componente di community building. Questo viene spesso ignorato da parte di chi semplicemente “scrive software conto terzi”. Potremmo dire che è sempre più questione di creare sistemi sociali piuttosto che tecnici, dove gli ultimi sono per lo più mezzi e abilitatori dei primi.
K: La qualità è invece garantita dalla professionalità e dalla reputazione dei singoli che compongono l’alleanza. Essere inseriti in una rete di reputazione come quella delle community italiane e non avere l’abitudine a fallire nei nostri progetti, è per noi già una garanzia verso i partner esterni.
Ok. Allora vediamo se ho capito: siete un network con competenze tecniche forti e diversificate che si propone come supporto a progetti innovativi legati al web 2.0.
K: È una buon definizione, anche se abbiamo una nostra idea di quello che dovrebbe essere il nuovo web. Inoltre, siamo aperti alla collaborazione unicamente su progetti che ci stimolino.
Pensate che la vostra rete possa aiutare la crescita del web 2.0 italiano, data la difficoltà attuale di reperire questo tipo di competenze?
K: Penso che questo sia stata la nostra motivazione principale sei mesi fa, quando ci siamo trovati l’uno con l’altro. La nostra scommessa è che come persone qui in Italia si possa trovare un modo ‘nostro’ di lavorare, collaborare e emergere sulla scena internazionale, mettendo insieme quello che abbiamo e senza necessariamente sperare in un aiuto esterno. È qualche mese che ci siamo dati un’identità come Nimboo e i primi progetti interessanti hanno già iniziato a bussare alla nostra porta.
Abbiamo parlato di web 2.0. Che cos’è per voi e per Nimboo il Web 2.0? Qual’è il messaggio più importante che il Web 2.0 porta?
H: Crediamo che sia il web che sarebbe dovuto essere fin dall’inizio, un web tra persone piuttosto che tra documenti. Qualcosa che e’ sempre esistito in nuce, che viene però finalmente fuori perchè le premesse tecniche lo consentono.
Quindi un web fatto di persone…
K: Questo è esattamente il nostro claim come Nimboo. Ci interessa costruire dialoghi che possano evolversi in progetti reali, che a loro volta generano altri dialoghi tra persone. In Nimboo crediamo che la collaborazione debba rinascere dal piccolo, piuttosto che da una wisdom of crowds generalizzata. Per questo supportiamo la formazione di micro-gruppi e cerchiamo di fornire gli strumenti di una collaborazione fluida. La nostra speranza è quella di creare tante isole che si reggono sulla reciproca fiducia, sul rapporto, sul dialogo e non sulla burocrazia. Isole di creatività e protezione entro le quali possano essere prodotti materiale, idee, servizi che andranno poi verso l’esterno.
H: Spesso crowds in wisdom of crowds è oggetto. Noi riteniamo possa essere più “soggetto” e chiamiamo questo approccio personable web.
Decentralizzazione concettuale e decentralizzazione tecnica? Con quali strumenti?
H: Sì. Il web sta andando verso la decentralizzazione concettuale ma abbiamo ancora molta centralizzazione tecnica.
K: Abbiamo bisogno di strumenti tecnici e sociali allo stesso tempo. In Nimboo siamo le cavie di quello che cerchiamo di evangelizzare. Esempio interessante è Sameplace, la nostra piattaforma di collaborazione e comunicazione.
H: Con Sameplace ci stiamo rendendo noi stessi cavie di sistemi dove il centro della comunicazione non è un server, ma la nostra rete personale espressa tramite una contact list, una chat, fino all’operare sui siti insieme ed allo scambiarci kudos (i nostri crediti virtuali). Per operare nello stesso spazio non dobbiamo spostarci in massa verso una web application o l’altra. Di fatto si tratta di uno strumento che si integra in Firefox come estensione e ci permette di rimanere collegati a tutti i nostri contatti. Una volta connessi tra di noi, Sameplace abilita una serie di altre possibilità, di domain specific dialogues, tipologie di comunicazione specifiche. Un esempio sono i kudos, un modo per trasferire crediti virtuali tra diversi collaboratori.
Che cosa sono i kudos? Come vengono accumulati e come possono essere spesi?
K: Un kudos è una promessa di tempo da una persona all’altra. Una sorta di banca del tempo molto efficace. Non potendo completare in prima persona una certa attività, offro 10 kudos (un’ora del mio tempo) trasferendoli direttamente tramite Sameplace alla persona della mia rete che effettua il lavoro al mio posto. So per certo che si tratta di una persona che conosco e di cui mi fido. Il mio debito viene in questo modo registrato dal sistema e provoca un interessante effetto secondario: serve a tenere viva l’energia. A volte progetti che non costituiscono il nostro day job si arenano. È facile arenarsi sulle parti meno interessanti. I kudos servono invece a tenere viva l’energia garantendo che anche le parti che prima sembravano noiose vengano completate divenendo al contempo una sfida e una promessa all’interno della rete. I kudos sono quindi non solo moneta di scambio ma anche riserva di energia psicologica per portare avanti i progetti.
Come applicate questo modello a compiti più complessi, in cui ogni contributo deve organicamente essere inserito in un piano?
K: In genere i piani per i nostri progetti interni non sono top-down. Ci piace pensare di seguire un liquid development. Preferiamo pensare a temi piuttosto che progetti per i nostri sviluppi interni. Per i progetti esterni, con specifiche precise, ovviamente usiamo un approccio diverso. In ogni caso si cerca però di capire quali sono gli umori, le tendenze e le energie all’interno del gruppo in un dato momento.
Rimanendo in tema di denaro. Pensate che con il web 2.0 si possa guadagnare? In che modo?
K: Temo che non avrai una risposta da noi. Quello che noi stiamo cercando di fare è semplicemente utilizzare il web 2.0 per portare avanti delle idee, mettendo sul mercato le nostre competenze. Noi crediamo che sia possibile utilizzare le tecnologie create dal web 2.0 per creare un nuovo tessuto di lavoro che bypassi i limiti imposti dalle strutture tradizionali del paese.
Quindi mi sembra di capire che voi percepiate i vostri progetti come strumenti di promozione e presentazione di competenze e persone da poter coinvolgere su progetti internazionali.
K: Ci basiamo su competenze locali per produrre idee da vendere all’estero dove esiste un mercato capace di premiarle. È un grande dialogo da cui sono già nate collaborazioni e relazioni di business. Se poi uno dei nostri progetti dovesse prendere piede e partire come money-generator o interessare altre aziende, tutto di guadagnato.
Focalizzandoci sul web, pensate che siano proprio queste forme di collaborazione, di costruzione di legami e cultura ad essere ciò che manca in Italia per il decollo del web 2.0 o manca anche altro?
K: Certo, manca altro. Servono più in generale modi di fluidificare il processo che va dall’idea alla realizzazione. Manca un’abitudine alla collaborazione e alla fiducia. Uno dei nostri dogmi è che le idee valgono all’incirca zero. Certo è una provocazione, ma è meglio un’idea “su cui si agisce” e rubata all’80% che un’idea che si ferma alle chiacchiere da bar.
Il vostro modello punta quindi ad una condivisione più forte sia di idee che di competenze nel tentativo di sopperire alla carenze italiane come per esempio la massa critica e gli investimenti?
K: Nel nostro gruppo crediamo nella preminenza del fare sul progettare in modo difensivo ogni dettaglio. Lo chiamiamo DO-crazia. Se dovessimo aspettare gli investimenti per poi adottare piani top down per assumere le persone, o per trovarle e convincerle, non riusciremmo proprio a partire. Noi partiamo dalle persone e dalle idee. Insieme ci mettiamo a fare e facendo osserviamo noi stessi e il mercato, creando competenze e servizi interessanti.
Pensate che esistano altri canali per far crescere la consapevolezza italiana sul web 2.0? Penso a incontri, conferenze, pubblicazioni
K: Ogni possibilità di creare rete tra i partecipanti è una fantastica occasione. Spesso si parla di “noi” e della “community” come se la community fosse qualcosa di esterno, da conquistare. La community siamo noi. Siamo già noi perchè siamo tanti e volenterosi. Non c’è nessuno a cui vendere se non a noi stessi. Dobbiamo unicamente organizzare la massa critica che già esiste.
H: Parafrasando Gibson: la community c’è già, è solo la consapevolezza di farne parte che non è ugualmente distribuita.
Vorrei chiudere con una domanda sul futuro. Come vedete i vostri progetti, la vostra comunità tra 5 o 10 anni? Quali effetti vorreste produrre sul mercato italiano?
K: Mi rifiuto per definizione di andar oltre i 2/3 anni perché per allora sarà tutto già cambiato. Tuttavia la nostra vision è abbastanza aggressiva: ci piacerebbe guardarci indietro tra 2/3 anni e poter dire che abbiamo avviato un processo che ha cambiato le cose in meglio per quanto riguarda l’immagine di questo paese sul web. Speriamo che alcuni dei nostri temi divengano realtà e che alcune scoperte organizzative del web 2.0 vengano riportate nel mondo ‘reale’. Questo è un po’ il mondo che vorremmo.