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Il segreto della leadership aziendale si trova nello sport

27 Marzo 2025

Il segreto della leadership aziendale si trova nello sport

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Investimenti? Non è detto. Dirigenti capaci? Non sempre. Personale di eccellenza? Fa sempre comodo. Ma quello che conta di più è avere un grande capitano.

Un leader sa motivare e farsi seguire senza brillare

  1. Come e perché un grande capitano degli All Blacks ha riscoperto la haka
  2. Quali sono le quattro qualità personali dei team leader eccellenti
  3. Chi potrebbe essere il migliore allenatore di sempre
  4. Perché spendere molto non fa per forza una squadra vincente
  5. Quali sono le otto ragioni per cui i grandi capitani passano inosservati

1. Come e perché un grande capitano degli All Blacks ha riscoperto la haka

Buck Shelford è stato il capitano di Prima Fascia a stagliarsi di più rispetto agli altri in termini di sfoggio di aggressività. La persuasiva mana di Shelford non lasciava dubbi sulla sua voglia di vincere. Tra le sue qualità più memorabili c’era la dedizione che metteva nel rituale della haka prima dei match. I maori neozelandesi erano una tribù di rinomati guerrieri, famosi in tutto il mondo per gli intimidatori tatuaggi sul volto, la capacità di brandire bastoni giganti fatti di legno o di denti di balena e per celebrare le vittorie in battaglia mangiando i cuori arrostiti dei loro nemici. La haka era un vecchio elemento dell’arte della guerra maori, uno spettacolo coreografato per caricarsi eseguito in varie circostanze ma principalmente prima della battaglia. Veniva fatta per incutere terrore nel nemico trasmettendo l’idea che i guerrieri che la inscenavano erano sotto l’influenza degli dei. Veniva inoltre usata per creare un fervore collettivo tra i guerrieri stessi che sincronizzava alla perfezione i loro corpi. Il messaggio mandato era: Stiamo partendo in battaglia e non ci aspettiamo di tornare vivi o incolumi, quindi mettiamo tutto quello che abbiamo.

Alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando la nazionale neozelandese cominciò ad andare a giocare all’estero, gli All Blacks intrattenevano il pubblico prima del calcio di inizio con la haka. La versione che usarono di più nel corso dei decenni fu quella nota come Ka Mate, nella quale si disponevano a cuneo a metà campo di fronte agli avversari. Il rituale cominciava quando il leader della haka, che si trovava al centro, gridava: Kia rite!. (Preparatevi!) A quel punto, gli altri si mettevano le mani sui fianchi, con i pollici a puntare in avanti. Quindi il leader urlava una serie di ordini preliminari:

Ringa pakia! (Battete le mani sulle cosce!)
Uma tiraha! (Gonfiate il petto!)
Turi whatia! (Piegate le ginocchia!)
Hope whai ake! (Fate seguire i fianchi!)
Waewae takahia kia kino! (Pestate i piedi più forte che potete!)

Una volta che tutti erano in posizione, ogni giocatore con i muscoli flessi e i polmoni allargati al massimo, cominciava la danza, accompagnata da un tonante canto di gruppo:

Ka mate, ka mate? (Morirò? Morirò?)
Ka ora, ka ora? (O vivrò, o vivrò?)

Mentre pronunciavano suoni gutturali, battendo i piedi, schiaffeggiando i propri corpi e tirando pugni in alto, i giocatori aggiungevano i loro terrificanti tocchi personali, tirando fuori la lingua, allargando la bocca, roteando gli occhi finché non era visibile solo il bianco. E alla fine, l’intera squadra saltava verso l’alto.

Gli avversari non capivano una singola parola detta dagli All Blacks, ma non era necessario: il loro linguaggio del corpo non dava adito ad alcun dubbio. Nel 1884, durante una trasferta in Australia, un giornale di Sydney riferì che il suono a tempo e all’unisono prodotto da diciotto paia di poderosi polmoni era impressionante e aveva terrorizzato i giocatori australiani.

Quando Shelford divenne capitano nel 1987, la haka stava conoscendo un declino per incuria. Per anni era stata eseguita senza trasporto da capitani con origini europee, che la vedevano come un obbligo. Shelford, che invece era un maori, organizzò per i compagni di squadra una visita a un college maori dove avrebbero potuto imparare la storia della haka e vederla eseguita correttamente. Shelford costrinse gli All Blacks a esercitarsi in quel rituale, e poi a esercitarsi ancora. Con il passare delle settimane, la squadra si prese sempre più a cuore quel compito. Cominciò a significare qualcosa per loro, disse.

Leggi anche: Sviluppare la leadership ideale: segreti e tecniche

Anche se sarebbe ingenuo suggerire che una danza pre-gara fu la ragione principale per cui la striscia di imbattibilità degli All Blacks durò altri tre anni, la rigenerata haka divenne chiaramente una fonte di energia per la squadra e un problema per i rivali. Anzi, alcune compagini avversarie erano ormai così ansiose riguardo ai suoi effetti, che organizzavano riunioni per discutere come rispondere. I giocatori neozelandesi finirono per capirne e apprezzarne il potere.

A prescindere che la haka abbia migliorato o meno il rugby degli All Blacks, probabilmente ha rafforzato la loro determinazione.

Inoltre, ha messo Buck Shelford davanti, al centro, dove i compagni potevano vedere, sentire – e provare – l’aggressività che pulsava dentro di lui. La haka era quel genere di cosa che poteva accendere i neuroni specchio delle persone. Per un capitano, era una maniera eccellente per trasmettere il suo fanatismo alla propria squadra.

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2. Quali sono le quattro qualità personali dei team leader eccellenti

Il miglior set di istruzioni in cui mi sono imbattuto – quello che più si avvicina alle mie osservazioni sui capitani della Prima Fascia – è stato compilato da Richard Hackman, psicologo sociale e delle organizzazioni che passò decenni a osservare al lavoro team di ogni sorta. Anche se i loro obiettivi erano diversi (si andava dal far atterrare un aereo al suonare un brano di musica classica), Hachman si concentrò sulla maniera in cui i loro preparativi e i loro processi influenzavano l’esito. Facendolo, tracciò i contorni di una teoria sulla natura della gestione efficace dei team o, citando le sue parole, le qualità personali che sembrano distinguere i team leader eccellenti da quelli in difficoltà.

La sua teoria si fondava su quattro princìpi.

  1. I leader efficaci conoscono alcuni aspetti efficaci. I migliori team leader sembravano avere una solida conoscenza delle condizioni necessarie all’interno di un team affinché i suoi membri dessero il meglio di sé. In altre parole, sviluppavano una visione su come dovessero andare le cose.
  2. I leader efficaci sanno come fare alcune cose. Nelle situazioni competitive, Hackman notò che i leader più dotati sembravano sempre toccare il tasto giusto. Capivano quali erano i temi più importanti di una determinata situazione in cui si trovava il team, e sapevano come colmare il gap tra lo stato in cui si trovava in quel momento il team e quello che doveva raggiungere per avere successo.
  3. I leader efficaci dovrebbero essere emotivamente maturi. Hackman comprese che guidare un team potesse essere un compito emotivamente impegnativo. I grandi capitani devono gestire le proprie ansie e nel frattempo fare i conti con i sentimenti degli altri. I leader più maturi non fuggivano dall’ansia e non tentavano nemmeno di nasconderla, ma la osservavano, per capirla; e, facendolo, trovavano il modo di disinnescarla.
  4. I leader efficaci hanno bisogno di un pizzico di coraggio personale. Per Hackman, il compito fondamentale di un leader era allontanare un gruppo dal suo sistema radicato e accompagnarlo verso uno migliore, più redditizio. In altre parole, aiutare un team o una squadra a svoltare verso la grandezza. Per farlo, a suo avviso, un leader doveva – per definizione – operare ai margini di ciò che i membri apprezzano e vogliono sul momento invece di essere al centro del consenso. Per far progredire un team, un leader deve interrompere la routine del gruppo e mettere in discussione la sua definizione di normale. Dato che questo genere di atteggiamento produce resistenze, e anche rabbia, i leader devono avere il coraggio di distinguersi; anche se in quel modo finiscono per pagare un prezzo considerevole.

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3. Chi potrebbe essere il migliore allenatore di sempre

A seconda di dove si viva e quale squadra si tifi, i più grandi allenatori della storia potrebbero essere magagr Hirofumi Daimatsu (pallavolo), Alex Ferguson (calcio), Phil Jackson (basket) o Anatoly Tarasov (hockey su ghiaccio). Ma nella mente della maggior parte dei miei compatrioti, ci sono pochi dubbi sul fatto che il più grande coach di football americano di sempre sia Vince Lombardi.

Mascella squadrata, spazio tra i denti, occhiali a mezza montatura e capelli a spazzola, Lombardi non era né sciolto né elegante. A bordocampo indossava completi con camicia bianca, cravatta sottile e un borsalino marrone. Assomigliava a un idrante vestito per un colloquio di lavoro. Durante il suo periodo a Green Bay, portò la squadra dai bassifondi ai vertici della NFL, vincendo cinque titoli in sette stagioni. L’unica ragione per cui i Packers non sono entrati in Prima Fascia è che tre di quei titoli furono vinti prima che i campioni della NFL sfidassero i campioni della AFL.

A distinguere Lombardi dalla maggior parte dei colleghi era il suo talento per l’oratoria. I suoi discorsi erano semplici, efficaci e incalzanti, pieni di implicazioni emotive e di analogie con la guerra. In anni in cui i giornalisti sportivi della carta stampata avevano il monopolio sulla copertura dello sport e un debole per la poesia, lo citavano nei loro editoriali, costruendo in quel modo uno spettacolare catalogo di frasi motivanti come Vincere non è tutto, ma lo è il provarci, La perfezione non è raggiungibile. Ma se la inseguiamo possiamo ottenere l’eccellenza e Non è importante se vieni buttato giù, ma se ti rialzi.

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4. Perché spendere molto non fa per forza una squadra vincente

Ogni anno, che si tratti di free agent o di trasferimenti e scambi sul mercato, i tifosi sparsi per il mondo criticano l’iniquo sperpero di soldi di alcune squadre, come per esempio Los Angeles Dodgers o Paris Saint-Germain. L’accusa che ripetono continuamente è che quelle squadre usano le loro risorse finanziarie per comprarsi un titolo.

Spendere più soldi di tutti ovviamente non è garanzia di vittorie. Gli Yankees, per dire, tra il 2002 e il 2012 hanno speso 1,2 miliardi di dollari in più rispetto alla media, eppure hanno conquistato una sola World Series. E prima abbiamo visto cos’è successo quando il Real Madrid ha aperto il libretto degli assegni.

È indubbio che nello sport professionistico la capacità di spesa offre alcuni vantaggi competitivi. Nel 2014, l’Economist osservò che in Premier League il monte ingaggi di una squadra era la singola variabile più importante delle prestazioni di una squadra. In ogni stagione, la classifica finale del campionato assomigliava molto alle capacità di spesa delle singole squadre. Allo stesso modo, diversi studi sul monte ingaggi nel baseball hanno dimostrato che le squadre che spendono in maniera significativa più della media tendono a vincere oltre il 50% delle gare. Quindi, pur non garantendo titoli, di certo spendere produce un numero maggiore di vittorie.

La prova del Barcellona

La prova più convincente della teoria delle grandi disponibilità finanziarie era la presenza in Prima Fascia del Barcellona. Durante la loro striscia di titoli tra il 2008 e il 2013, i blaugrana usufruirono di una serie di accordi da record per diritti televisivi, sponsorizzazioni e commercializzazione del brand. Nel 2013 il Barcellona registrò un fatturato di 600 milioni di dollari (al netto dell’inflazione), ossia il triplo rispetto a un decennio prima, una cifra che lo rese il secondo club più ricco al mondo e che gli permise non solo di mantenere le superstar già in rosa (come Messi), ma anche di acquisirne di nuove. Nei suoi cinque anni di dominio, la squadra catalana spese più di 400 milioni di dollari solo sul mercato, a cui si aggiunsero quelli elargiti in ingaggi.

Nessuno direbbe mai che nel calcio i soldi sono irrilevanti. La maggior parte dei tifosi ritiene che la formula migliore per vincere sia un mix tra grandi capacità di spesa e la volontà di sviluppare talenti: un modello che sarebbe stato incarnato proprio dal Barcellona. Ma le vicende finanziarie delle sedici squadre di Prima Fascia chiarivano senza mezzi termini un punto: il Barcellona era un’eccezione.

In realtà, la maggior parte delle squadre presenti in Prima Fascia avevano raggiunto i loro maggiori successi durante periodi di relativa povertà. I Collingwood Magpies avevano così pochi soldi che gli altri club li saccheggiavano prendendo le loro stelle, mentre i San Antonio Spurs erano stati raramente tra le squadre con il monte salari più alto nel corso della loro striscia di diciannove stagioni consecutive ai playoff. E anche le squadre che avevano più soldi dei propri rivali, non li scialacquavano in salari: per esempio, i dirigenti che guidarono gli Yankees tra il 1949 e il 1953 e i Pittsburgh Steelers degli anni 1974-80 erano famosi per contrattare duramente con i giocatori per mantenere basso il monte ingaggi.

La classe del capitano, di Sam Walker

Dal Barcellona di Puyol al Brasile di Pelé, dagli All Blacks ai New York Yankees, passando per la nazionale sovietica di hockey su ghiaccio e quella francese di pallamano, Sam Walker svela le sette qualità essenziali di un leader eccezionale e risponde a una domanda cruciale: grandi capitani si nasce o si diventa?

In termini di disponibilità finanziarie, c’era una spaccatura netta tra le squadre professionistiche della Prima Fascia come il Barcellona, che devono pagare ingaggi alti decisi dal mercato, e le nazionali – come Cuba, Ungheria e Australia – che competono in eventi globali. Dato che le nazionali hanno il monopolio sui giocatori nati nei propri confini, c’è poca competizione per ottenere i loro servizi. Se agli atleti non piace quello che viene offerto loro dalle nazionali, possono decidere di non rispondere alle convocazioni o rinunciare alla cittadinanza.

Diverse nazionali presenti in Prima Fascia avevano budget molto limitati. Le giocatrici della nazionale femminile cubana di pallavolo venivano pagate così poco che durante i tornei internazionali le avversarie si sentivano talmente in colpa da portarle in giro a comprare vestiti. Una volta, prima delle Olimpiadi del 1996, i dirigenti della federazione di calcio americana impedirono alle giocatrici della nazionale di allenarsi perché avevano chiesto un nuovo contratto per non essere più costrette a fare un secondo lavoro o a contare sull’aiuto dei propri genitori.

L’eccezione All Blacks

Tuttavia, in Prima Fascia c’è una nazionale in cui gli ingaggi dei giocatori contavano enormemente: gli All Blacks degli anni dal 2011 al 2015. Dato che le regole vietavano agli atleti di vestire la maglia del proprio paese se firmavano con un club di un’altra nazione, la federazione locale dovette trovare un modo di dare ai suoi giocatori più forti ingaggi adeguati al mercato. Così, iniziò a vendere sponsorizzazioni e diritti televisivi che, nel 2015, portarono a incassare la cifra di record di 93 milioni di dollari.

Anche se questo sforzo di sicurò aiutò gli All Blacks a mantenere competitiva la squadra, alla fine appare improbabile che il denaro sia stato l’unico catalizzatore di quei trionfi, anche perché quelle entrate erano irrisorie rispetto ai quasi 300 milioni di dollari guadagnati quello stesso anno dalla federazione inglese.

Insomma, parlando di successi mostruosi, essere degli spendaccioni non sembra incidere più di tanto.

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5. Quali sono le otto ragioni per cui i grandi capitani passano inosservati

  • Non avevano talento da superstar. La maggior parte delle capitane e dei capitani della Prima Fascia non sono i migliori giocatori della squadra, o nemmeno le loro stelle più luminose. Spesso hanno lacune tecniche e i loro allenatori li descrivono come giocatori nella media. Alcuni di loro sono stati costretti a lottare duramente solo per arrivare nell’élite e a un certo punto sono stati trascurati, relegati in panchina o anche piazzati sul mercato. Se confrontati a icone di leadership glamour, carismatiche e incredibilmente talentuose come Michael Jordan, appaiono formidabili quanto una band di mariachi.
  • Non amano le luci della ribalta. Le donne e gli uomini della Prima Fascia non apprezzano le manifestazioni esteriori della fama e cercavano raramente attenzioni. E quando le ricevono, appaiono a disagio. Fuori dal campo sono spesso taciturni, introversi e, in un paio di casi, anche notoriamente impacciati. In generale odiano le interviste, rispondono a monosillabi e trattano i reporter con indifferenza. Rinunciano a cerimonie di premiazioni ed eventi dei media e spesso rifiutano proposte di sponsorizzazione.
  • Non guidano in senso tradizionale. Avevo sempre creduto che, in una squadra, il marchio del leader fosse la capacità di assumere il controllo della partita nei momenti critici. Ma la maggior parte delle capitane e dei capitani della Prima Fascia recita un ruolo subordinato nella propria squadra, secondario rispetto alle stelle, e di solito affida ai talenti che aveva attorno il compito di segnare. Se non erano il genere di atleta che si prende i tiri importanti, non capivo come facessero a guidare e come potessero essere considerati grandi leader.
  • Non sono angeli. Giocano spesso al limite delle regole, fanno gesti antisportivi o in generale si comportano in modi che sembrano mettere a rischio le chance di vittoria delle proprie squadre. Per esempio mandare al tappeto giocatori rivali senza alcun motivo apparente e redarguire – e in due casi, persino assalire – arbitri, allenatori o dirigenti. E ci vanno giù pesante anche con gli avversari – sgambettandoli, scaraventandoli a terra, bloccandoli sul prato, picchiandoli o rivolgendo loro epiteti non pubblicabili.
  • Fanno cose potenzialmente divisive. Se proviamo a immaginare che cosa potrebbe fare il leader di una squadra per sabotare i suoi, è altamente probabile che loro lo abbiano fatto. In varie occasioni hanno ignorato gli ordini degli allenatori, si sono opposti a regole e strategie di squadra e hanno concesso interviste schiette nelle quali hanno criticato chiunque, dai tifosi ai compagni di squadra, fino agli allenatori e ai vertici dei loro sport.
  • Non sono i soliti sospetti. L’elemento più impressionante della mia lista dei capitani della Prima Fascia era chi non vi compariva. Tra le assenze più eclatanti figuravano: Michael Jordan, co-capitano dei Chicago Bulls considerato generalmente il più grande giocatore di basket della storia; Roy Keane, capitano del Manchester United fermatosi anch’esso alla Seconda Fascia e che dal 1998 al 2001 aveva guidato i suoi ai tre anni più notevoli nella storia del calcio inglese; Derek Jeter, famosissimo capitano dei New York Yankees che dal 2003 al 2014 condusse la sua squadra a nove partecipazioni ai playoff e a un titolo delle World Series.
  • Nessuno aveva mai citato questa teoria. Durante la mia esperienza come giornalista sportivo, avevo torchiato atleti, allenatori e dirigenti celebrati di ogni sorta su quale fosse il motivo dei successi delle loro squadre. Isiah Thomas dei Detroit Pistons, Reggie Jackson dei New York Yankees, il general manager dei Green Bay Packers Ron Wolf, il coach di college football Bobby Bowden, la leggenda del calcio brasiliano Arthur Antunes Coimbra, più nota come Zico, nessuno di loro aveva mai identificato i capitani come forza trainante di una squadra.
  • Il capitano non è il leader primario. Nella maggior parte delle squadre, il posto più alto nella scala gerarchica spetta agli allenatori. Dopotutto, normalmente sono loro a nominare il capitano. Inoltre, sopra di loro c’è un’ulteriore decisiva fonte di potere: la proprietà di una squadra e la dirigenza. I loro contributi, così come la loro disponibilità a spendere soldi, recitano sicuramente un ruolo significativo.
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    Questo articolo richiama contenuti da La classe del capitano.

    Immagine originale di Pascal Swier su Unsplash.

    L'autore

    • Sam Walker
      Sam Walker è autore, speaker e consulente specializzato nell'aiutare le organizzazioni a rafforzare le pratiche di selezione e sviluppo della leadership. La sua esperienza deriva da due decenni come reporter e redattore al Wall Street Journal, dove nel 2009 ha fondato la redazione sportiva che, sotto la sua guida, ha vinto più di una dozzina di premi giornalistici e ricevuto due nomination al premio Pulitzer. Ha frequentato l'Università del Michigan e vive a Los Angeles con la moglie e i due figli.

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