Non riesco a rintracciare negli archivi una qualsiasi previsione per la quale un domani l’ultimo bastione della superiorità umana sul computer sarebbe stato rappresentato dagli assi (gente brava, non le carte) di poker alla texana.
Invece ha fatto notizia la sfida Brains vs. Artificial Intelligence: due settimane, sponsorizzate tra gli altri da Carnegie Mellon University e Microsoft, di sfida tra quattro dei migliori dieci pokeristi del pianeta e Claudico, software approntato da un team di Carnegie Mellon diretto dal professor Tuomas Sandholm.
Alla fine della sfida gli umani hanno vinto 732.713 dollari, tutti sfilati simbolicamente dalle tasche di Claudico dato che le partite erano uno contro uno. Il computer non può cantare vittoria ma pareggio sì, perché sono state giocate ottantamila mani con scommesse per 170 milioni di dollari. Quindi, argomenta Sandholm, essendo le vincite meno dell’uno percento del piatto complessivo, non contano:
Sapevamo che Claudico era il computer da poker più forte del mondo, ma prima di questa gara non sapevamo come si sarebbe comportato contro giocatori tra i primi dieci nel mondo. Non sarebbe stato indegno per Claudico perdere contro persone così talentuose, per cui anche un pareggio statistico è un risultato incredibile.
Non possiamo sapere se i professionisti abbiano dato il meglio, poiché le vincite sono state solo virtuali e hanno partecipato in cambio di un un gettone donato da Microsoft e dal Rivers Casino di Pittsburgh. D’altronde Claudico si è dimostrato un giocatore atipico, capace di scommettere diciannovemila dollari per vincerne 700 così come inseguire profitti enormi con grande rischio, comportamenti fuori dallo spettro tipico del pokerista di professione.
From how well claudico played, I think it was balanced and a strong opponent, but I don't want this misrepresented as a tie #BrainsVsAI
— Doug Polk (@DougPolkPoker) May 8, 2015
Il computer ha perso interesse nelle partite a scacchi e si dedica addirittura a risolvere il gioco. I migliori programmi di Go stanno per diplomarsi grandi maestri. Le auto che si guidano da sole sono una realtà e Google ha da poco divulgato i suoi dati interni: 1,7 milioni di miglia percorse sulle strade californiane e una manciata di incidenti lievi, con nessun danno serio a cose o persone, sempre causati da autisti umani.
Ma abbiamo già visto come quella del computer non sia intelligenza, quanto invece lo sfruttamento di basi dati e algoritmi di mining a un livello che i progressi di hardware e software hanno reso vertiginoso. Così Watson di IBM ha sconfitto i campioni di Jeopardy nel loro telequiz preferito. Però non sa di averlo fatto, non sa perché lo ha fatto e non sente il desiderio di riprovarci (o cambiare gioco).
Che cosa potremmo definire intelligenza artificiale? Forse è il momento di riprendere Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, che quarant’anni fa ha vinto il Pulitzer e ha cambiato le carte in tavola sul significato di coscienza, sulla natura delle menti artificiali, sul ruolo della ricorsività, dell’imperfezione, del metalinguaggio, di tutti quei meccanismi di pensiero che i sistemi odierni non sono in grado di applicare per quanto sia grande il loro NoSQL residente nel cloud.
Su GitHub è perfino comparso il progetto dell’ebook (Adelphi, detentrice dei diritti in Italia, non lo propone). Per chi sia disposto a dare una mano nella correzione dei numerosi errori introdotti dalla scansione degli originali, c’è anche l’occasione della lettura gratis. La prima edizione Adelphi poteva peraltro vantare una traduzione straordinaria e, a mia conoscenza, un solo refuso (che sarà stato abbondantemente sistemato).
Due traguardi, traduzione e correzione di bozze, che nessun computer sarebbe oggi in grado di svolgere con identica qualità. E la chiamano intelligenza artificiale.