Le nuove reti di comunicazione, per la loro prerogativa di consentire comunicazioni rapide ed economiche associate, spesso, a un’estrema facilità d’uso, hanno alimentato un mito: quello della comunicazione come agente di civiltà e di fratellanza. A questo si è affiancato un altro mito, quello della comunicazione come agente di democrazia.
Si tratta di riflessioni, ancorché di speranze, che i mezzi di comunicazione hanno da sempre alimentato. Nonostante ciò la nostra società non sembra essere migliorata in questo ultimo secolo, così come il mito aveva lasciato sperare. In effetti, oggi, molti tendono a dimenticare la storia e basano le loro analisi su concetti effimeri. Per questo motivo può essere utile, per capire meglio gli scenari futuri, fare un passo indietro, al secolo passato.
È verso la fine del 1860 che la comunicazione viene consacrata come “agente di civilizzazione”. La sua universalità era legata a quella dell’Impero Vittoriano della Gran Bretagna. A partire dalle reti ferroviarie, dal telegrafo e dai cavi sottomarini – ma anche della via interoceanica di Suez e della navigazione a vapore – si andava configurando una rappresentazione del mondo come un “vasto organismo” nel quale tutte le parti erano solidali tra loro.
Le reti, che in quel momento iniziavano a coprire il globo, diventavano il simbolo di un mondo interdipendente dove le economie nazionali cedevano il posto a una nuova organizzazione internazionale del lavoro. Intorno alle prime reti di comunicazione, espressione fisica di questa nuova “solidarietà organica”, prende forma la prima organizzazione intergovernamentale dell’era moderna, la prima istanza internazionale di regolazione dei flussi alle frontiere. È nel 1865, in effetti, più di 50 anni prima della Società delle Nazioni (antenata dell’attuale Onu), che viene fondata a Parigi l’Unione Telegrafica Internazionale, che riuniva una ventina di Paesi, la maggior parte europei. Si tratta dell’antenata dell’attuale Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, che vide la luce in occasione di una conferenza internazionale a Madrid nel 1932 in seguito alla fusione dell’Unione telegrafica e dell’Unione radiotelegrafica internazionale creata nel 1906 a Berlino. L’Unione postale universale, da parte sua, era già nata nel 1874 a Berna.
Poste e telegrafi diventano supporti importanti nei discorsi utopici sulle presunte virtù “universalizzanti e pacifiche” delle tecniche di comunicazione. Lo stesso ruolo lo avevano svolto le reti ferroviarie nel 1830. Questi tre tipi di reti alimentarono l’immaginario religioso della sfera delle comunicazioni. In comune con la religione avevano il desiderio di collegare persone e popoli. Dunque, è già nel diciannovesimo secolo che si gettano le basi dell’ideologia che attribuisce alla comunicazione doti di redenzione.
“Tutti gli uomini diventano fratelli”, proclamavano le grandi esposizioni universali che succedettero a quella di Londra del 1851, mentre veniva inaugurato il primo cavo sottomarino internazionale, il cavo Transmanica. Durante mezzo secolo e fino all’Esposizione universale di Parigi del 1900, tutte le mostre e le tecniche di comunicazione porteranno avanti il medesimo discorso e la medesima utopia dell’avvento dell’Associazione universale.
Eppure, al di fuori di queste assise pacifiche del progresso, la decantata solidarietà tra i popoli veniva continuamente smentita dai rumori e dai furori della guerra e delle conquiste coloniali. E il Novecento è stato lo scenario dei due conflitti più devastanti della storia dell’umanità.
Per illustrare la fase di internazionalizzazione del sistema nel quale noi viviamo ricorriamo al termine globalizzazione. Il termine rende l’idea, perché viviamo effettivamente in un mondo strettamente interconnesso. Ma globalizzazione tende a dare un’immagine del mondo più armoniosa di quello che è in realtà. Il termine risale al 1969, a utilizzarlo per primo fu Marshall McLuhan in una sua pubblicazione intitolata “War and peace in the global village”. Il termine globalizzazione prelude in modo quasi automatico ad un altro concetto, quello di omogeneizzazione. È quello che negli anni settanta veniva definito imperialismo culturale. Le prospettive, in questo quadro, non sono sicure e non necessariamente confortanti.
Quale senso possono avere le reti che avvolgono il pianeta per le differenti comunità? Queste come si comportano e, soprattutto, come si comporteranno in futuro? Le recepiscono, vi resistono, vi si adattano? Stiamo andando verso una soppressione delle culture locali? O più semplicemente verso comunità culturalmente meticce. Alle soglie del ventunesimo secolo la comunicazione resta uno degli aspetti centrali, strategici nell’evoluzione sociale ed economica del nostro sistema. E come nel secolo scorso il ruolo che la comunicazione gioca e giocherà in questa evoluzione rischia di essere frainteso, rimanendo sospeso tra mito e realtà.