Ha scritto di recente James Bridle (@jamesbridle) sul Guardian a proposito di come cambiano con l’epoca digitale le dinamiche e i significati dell’autopubblicazione:
There’s another term for what Autonomy and Book Country do: monetising the slush pile.
Il meccanismo è semplice: si individua un’esigenza (il racconto, la condivisione), si comprende che la risposta a questa esigenza è inefficiente, ci si inserisce e si prova a costruire un mercato. Le persone scrivono. Spesso – quasi sempre – desiderano essere pubblicate: che il proprio pensiero sia reso noto. A volte – seguendo proporzioni note – dalla pigna purulenta salta fuori qualcosa di interessante. Nei restanti casi si aumenta il traffico, si tenta di creare una community (potrebbe comunque uscirne qualcosa di imprevedibile) e si fattura sui servizi premium. Secondo Clay Shirky (@cshirky),
In ye olden times of 1997 […] we had a class of people called publishers because it took special professional skill to make words and images visible to the public. Now it doesn’t take professional skills. It doesn’t take any skills. It takes a WordPress install.
Forse, ma non basta. Serve il riconoscimento da parte dii una comunità, il consenso intorno alle proprie parole (ai propri pensieri). Penso che questo sia il cuore della funzione editore: costruire un corpus – in teoria – coerente; attestare un’identità comune. Sono io – la mia storia, oppure le mie conoscenze – ad essere considerato selezionabile, adatto ad essere parte integrante di un discorso, a comporre un immaginario. E allo stesso tempo: sono io, lettore, a essere parte di una comunità organica: costruisco in questo modo e con questi strumenti la mia identità – con questi libri, con questa selezione di autori – e allo stesso tempo la trasmetto. Esclusione e inclusione agiscono sincronicamente: è un processo di definizione di sé in relazione agli altri che procede per continui aggiustamenti.
Questa funzione è stata – fino a poco tempo fa – assegnata agli editori, ma è una funzione strutturale e non c’è ragione per cui non debba sopravvivere, propagarsi. Un suggerimento interessante viene da questo post di John G. Norman (@tuke) riguardo GitHub:
I suspect that GitHub’s servers now contain the world’s largest corpus of commentary around intellectual production.
Distinguere tra codice e letteratura è un problema solo per chi pensa di doverlo necessariamente fare. GitHub mette a disposizione una piattaforma funzionante, in grado di aggregare i commenti, tenere traccia delle interazioni, fornire un’istantanea delle versioni esistenti ed esistite.
Comunità, condivisione, consenso, creazione di identità, costruzione di un corpus.
Purissima funzione editore.