Mentre Bill Gates si appresta, non senza polemiche, a sbarcare nelle auguste aule del nostro Senato per presentare la sua visione del mondo, dall’altra parte dell’oceano, a casa propria, la sua azienda viene punita e maltrattata in tribunale.
Questa volta, il censore dei comportamenti di Microsoft si chiama Frederick Motz ed è il giudice federale di Baltimora, chiamato a giudicare la causa intentata da Sun Microsystems.
Dopo aver definito l’azienda come “spaccagambe” nei confronti della concorrenza, mutuando l’aggettivo dal mondo sportivo, ha dato ragione a Sun obbligando Microsoft a integrare una versione compatibile del linguaggio di programmazione universale Java nel sistema operativo Windows.
Sun aveva sporto causa nel marzo scorso, chiedendo più di un miliardo di dollari di danni per violazione della legge anti-trust.
L’azienda che ha creato Java, accusava Microsoft di “forzare le compagnie a distribuire o utilizzare prodotti non compatibili con Java”.
“Anche se diceva di voler rispettare l’obiettivo di compatibilità – ha detto il giudice – Microsoft ha intenzionalmente preso diverse misure per far fallire questo obiettivo”.
“Sun ne soffrirebbe molto – continua il giudice – se la sua richiesta non fosse accettata”.
Nello stilare la sentenza, il giudice Motz ha preso in considerazione le conclusioni del tribunale federale di Washington del 2001, dove Microsoft viene riconosciuta di abuso di posizione dominante e aggiunge che aveva tentato di eliminare Java, lamentando che un giorno Java avrebbe potuto diventare un sistema operativo concorrente.
“La decisione permette di assicurare che una versione attuale e compatibile di Java sarà presente su ogni personal computer – dichiara un soddisfatto Mike Morris, consigliere giuridico di Sun, in un comunicato – e di mettere fine alla pratica di Microsoft di frammentare la piattaforma Java”.
Microsoft non commenta e annuncia che intende fare appello alla decisione del giudice Motz.
“Siamo delusi della sentenza – spiega un portavoce dell’azienda – e abbiamo ancora bisogno di studiare i dettagli del giudizio”, aggiungendo che a un primo esame “abbiamo intenzione di fare appello e chiederemo alla corte d’appello di adottare una procedura accelerata”.