La mia generazione, l’attuale tardo-giovane nata negli anni Sessanta, ha vissuto il mondo diviso in due. Bianchi-Rossi, Rossi-Neri, Nord-Sud, Buoni-Cattivi, Indiani-Cowboy. Era quel modo di immaginare il mondo secondo monopòli contrapposti, verità inconciliabili e antitetiche per cui era naturale costruire confini invalicabili. Una filosofia di vita nella quale il Muro di Berlino ha rappresentato la massima espressione e simbolo. Un “o con noi o contro di noi” che si rifletteva in quasi tutte le vicende della vita quotidiana (nella mia scuola superiore la rivalità grafici-fotografi si risolveva in un’epica battaglia a gavettoni l’ultimo giorno di scuola prima della pausa natalizia).
Persino una delle più frequentate arene del pensiero filosofico italiano, il calcio, è stata influenzata da un dualismo all’apparenza inconciliabile: da una parte Helenio Herrera, dall’altra Johan Cruijff. Ma che cosa c’entrano il maestro del catenaccio e il profeta del calcio totale in un articolo che dovrebbe parlare di innovazione e tecnologia? Per me, che ho fatto parte di quella generazione bipolare, i due maestri del calcio hanno un valore paradigmatico insostituibile quando penso al mio lavoro di insegnante nelle scuole per i creativi digitali del futuro.
Libero o indipendente?
Non sono un esperto di tattica calcistica ma credo sia il caso di chiarire le due posizioni, almeno come le ho capite io, prima di infilarsi nello spinoso tema della formazione dei professionisti del digitale del futuro. Helenio Herrera, classe 1910, è l’allenatore argentino che ha portato al successo internazionale il modulo del catenaccio tra gli anni Sessanta e Settanta. Il catenaccio è una disposizione tattica sul campo che cerca di vincere la partita impedendo all’avversario di segnare. Ogni giocatore ha un ruolo definito il cui compito è quello di presidiare la zona del campo di competenza. Un gioco di tattica, che ricorda lo stile del campione di tennis Bjorn Borg. Appostato a fondo campo aspettava che l’avversario facesse un passo falso.
Un gioco concreto, adatto ad artigiani del pallone saggi e posati, rispettosi dello schieramento e del proprio ruolo. Come nella Prima Guerra Mondiale delle trincee del Nord Europa, i due eserciti letteralmente piantati su un fazzoletto di terra si fronteggiano aspettando che l’altro prenda l’iniziativa ed esaurisca le risorse su difese invalicabili. Una guerra di attesa, nella quale vince chi ha pazienza e costanza. Quando questo tipo di gioco si diffuse non fu certo lo spettacolo a trarne vantaggio. Ma erano gli anni Sessanta. Gli anni più spettacolari che l’umanità avesse fino ad allora vissuto. E se in Italia, patria del catenaccio, il mister Fabbri costringeva il calciatore beat Gigi Meroni a tagliarsi i capelli per poter accedere alla nazionale, nel nord dell’Europa, a pochi passi da quelle trincee che avevano inchiodato la generazione dei nonni, i capelli lunghi si portavano eccome.
Imprevedibili, scatenati e soprattutto insofferenti i giocatori di alcune squadre del Nord, come l’Aiax, stavano covando una nuova idea di giocatore. Erano i profeti del calcio totale. E Hendrik Johannes Cruijff, classe 1947 ne era il simbolo. Era gente che trovavi in qualunque parte del campo, difensori sotto rete, bomber all’inseguimento di un contropiede avversario. Giocatori addestrati a correre, a ricoprire qualunque ruolo il momento avesse richiesto. Per questo venne chiamato calcio totale.
Il modulo flessibile
E io, quando mi trovo a dover ricominciare l’anno con nuovi e vecchi studenti, mi chiedo: catenaccio o calcio totale? Devo spingere i designer del prossimo futuro verso la specializzazione del ruolo, l’approfondimento, la rigida separazione in competenze oppure devo spingerli a correre per il campo, ad affrontare qualunque sfida con mezzi anche approssimativi contando sulla capacità di improvvisazione? Aiutarli a sviluppare una sensibilità che spazia in tutti i campi (o su tutto il campo) scatenando la curiosità in ogni parte della catena produttiva o la passione per la verticalità della preparazione, a quel modo un po’ ossessivo di dedicarsi ad un angolo di mondo che poi riflette tutto il resto?
Insomma se si vuol diventare un web designer è ugualmente fondamentale conoscere il design e Photoshop, l’interazione e l’Html, la strategia e la sociologia, la letteratura e l’arte del tag, la filosofia e il Seo (inteso come Serach Engine Optimization)? Un’attitudine onnivora (e un po’ bulimica) che spinge a pattinare senza sosta sulla superficie, senza mai raggiungere l’eccellenza in alcuna materia se non quella della consapevolezza di progetto. O forse è meglio sviluppare a fondo la propria competenza, la techné, e lasciare ad altri il compito di contribuire con le proprie definite competenze al completamento dell’opera? La specializzazione paga. Il miglior programmatore Java sulla piazza, ha la possibilità di determinare il suo ruolo professionale, può essere paragonato, quindi può competere e vincere. Può vendere bene i tuoi servigi, può definire le sue responsabilità, il suo potere. Lo specializzato per un’azienda è oro. È garanzia di una qualità prevedibile, gestibile e continuativa. Come Borg da fondo campo.
Certo era più facile qualche tempo fa, quando ideazione e realizzazione erano forzatamente separate: il grafico dal tipografo, l’editore dall’autore, il compositore dall’orchestra. Ora è un po’ diverso. Nel tempo del personal computer e della rete, la separazione tra ideazione, produzione e persino diffusione si è sfumata. I prodotti di comunicazione digitale implicano spesso interazione, il che significa una solida conoscenza, da parte del designer, del comportamento, delle abitudini, del linguaggio del proprio target. Un occhio che non è solo più spunto estetico ma anche sensibilità sociologica, linguistica, di umana interazione. Psicologia, sociologia, storia, arte, cronaca, non possono più essere materie sconosciute. Se il successo dei Balletti Russi all’inizio del ventesimo secolo fu frutto in eguale misura del genio creativo del ballerino Nizinskij e del genio organizzatore dell’impresario Diaghilev, nel mondo digitale ci si chiede di essere ballerini e impresari allo stesso momento.
L’arancione nel Subbuteo
Un ruolo totale dotato di un certo fascino di onnipotenza: il gioco imprevedibile dei capelloni del calcio totale che faceva sognare. Gli omini arancioni del Subbuteo che rappresentavano l’Olanda di Rinus Michel nella quale militavano Neeskens, Rensenbrink e Krol ce li si doveva giocare a testa o croce con enorme disappunto di chi perdeva. Eravamo convinti che Cruijff, in porta, avrebbe potuto competere con Zoff, Yashin e gli altri miti con i guanti. Per alcuni autori che si sono occupati dell’atto creativo (Csikszentmihalyi, Sutton, Gladwell e anche Rodari) la sorpresa, il pensiero che sbanda per strade inaspettate è l’essenza dell’invenzione creativa. Per uno specializzato, profondamente addentro la materia, è più difficile violare l’ortodossia del pensiero. La consapevolezza dell’errore è talmente presente che prendere strade irresponsabili è più difficile. E qui sta il fascino del giocatore totale.
D’altra parte, l’Olanda è stata una squadra che ha vinto meno, molto meno di quello che il mito che la circonda potrebbe far presupporre. Un rating di successo molto minore rispetto alle più sagge squadre dedite al catenaccio. Quelli del catenaccio sono gente solida che porta a casa il risultato e non importa se è un insipido uno a zero. Focalizzati sull’obiettivo in genere non lo mancano. Gli altri, i capelloni, sono spesso dispersivi, sognatori, scarsamente concreti. Corrono, è vero. Quasi tutti hanno il senso del gioco, la visione globale del campo, dei compagni. Sono presenti, consapevoli. Ma a volte si innamorano del gioco e dimenticano la porta. E a volte ho il sospetto che per giocare così liberi sia necessario il talento di Cruijff.
Il professionista ibrido
Certo i tempi sono cambiati, il muro di Berlino è caduto, il derby non è più una questione di vita o di morte, la sfumatura è diventato colore alla moda, i conservatori vanno in discoteca, i progressisti collezionano libri antichi e maglioni di cachemere, Maria de Filippi va al Festival di San Remo (e lo vince). Nessuno applica più il catenaccio puro o il calcio totale totale. Siamo in un’epoca di mediazione (che qualcuno chiama compromesso) e allora si può immaginare di formare un professionista ibrido. Un professionista specializzato ma curioso e irrequieto. In grado di ragionare in termini tecnologici e sociologici insieme. Un professionista con un’enorme necessità di formazione continua, di confronto, di informazione. La tecnica ma anche l’attitudine alla curiosità. Una attitudine che si coltiva anche con incontri con persone che fanno un mestiere diverso, ma che condividono lo stesso amore per la soluzione efficace e innovativa. Incontri che sono il tocco di imprevedibilità che spiazza, che sovverte, che ti fa trovare dalla parte sbagliata del campo con la palla tra i piedi.
Architetti, musicisti, scrittori, ricercatori e scienziati con il gusto creativo. Un allenamento al dribbling creativo il cui avversario è un campione di pensiero. Naturalmente il termine “incontri” non implica solamente la compresenza fisica in uno stesso luogo. Vuol dire anche leggere. È una tecnica didattica che implica necessariamente una certa dose di imprevisto: l’incalcolabile impatto che un incontro possa incidere più o meno profondamente sulla nostra vicenda. Un imprevisto che spesso le scuole fanno fatica ad includere nella loro offerta formativa.
Insomma, anche l’anno prossimo, preparando le mie lezioni avrò ancora di fronte a me Herrera e Cruijff. Palla al centro e vediamo che cosa succederà.