Ritorno su un tema che affronto spesso. Internet, in Italia, non è per tutti. Ben che vada, secondo i dati Audiweb, c’è in rete meno della metà della popolazione. In un giorno medio sono collegati 11 milioni di utenti, su una popolazione censita Istat di 60 milioni abbondanti. Gli utenti Facebook sono stimati in 16 milioni. Tanti, ma una frazione della popolazione. Su Twitter sono ancora meno, si stima nell’ordine delle centinaia di migliaia. Morale della favola: la maggior parte degli italiani, internet, non se lo filano proprio. Ora, la faccenda è semplificata o complicata dal fatto che su internet si trova una categoria ben definita di persone: le élite, come diceva già tempo fa Eurisko. In rete troviamo quella parte della popolazione che costituisce il cuore economico, sociale, culturale italiano. Vuoi dal punto di vista del reddito, vuoi da quello culturale o intellettuale. Ma se cerchiamo una fascia “alta” la troviamo in rete. E magari sono persone che hanno ridotto il proprio consumo di certi media analogici perché stanchi o più soddisfatti di quel che trovano in rete.
Target alto, target basso
Fatta questa analisi (forzatamente semplicistica), veniamo alla complicazione. Per un’azienda, oggi, promuovere la propria attività, comunicare, diventa una faccenda che riguarda pesantemente internet – se il suo target è “alto”. Se il suo target è “basso”, ne può e forse deve fare a meno, perché c’è il rischio che in rete i suoi potenziali clienti non li trovi (ma è obbligatorio fare qualche verifica e non fidarsi dei si dice). Fin qui tutto bene. Peccato però che ci sono tutta una serie di prodotti, di grandi aziende, che coprono tutti i target, dall’alto al basso. Certi caffè sono comprati dal professore universitario di Trento come dalla pensionata di Marsala. Ed entrambi sono influenzati anche dalla pubblicità che ne vedono in tv. Certe auto sono la prima vettura di una famiglia a basso reddito e bassa istruzione o la terza macchina di una famiglia abbiente.
Ora, se parlo ad un target “basso”, certe volte è proprio necessario fare pubblicità nazional-popolari o peggio. Se avete presente certe pubblicità di talune compagnie telefoniche, avrete notato che sono criticatissime. Soprattutto in rete. Dal target che trovo su internet. Ma – e ve lo dico dal basso di 25 anni di esperienza nel campo – se certe campagne che a noi che stiamo in rete fanno ribrezzo continuano a essere messe in onda con grandi budget. Il problema non sono le campagne, siamo noi. Perché in media le aziende non buttano i milioni di euro dietro a campagne che non fanno vendere. Quindi vendo in basso e forse mi alieno chi sta più in alto nella piramide.
Questione di Yoga
D’altra parte, online, bisogna essere moderni, social, “avanti”. Fare cose, dire cose che coinvolgono un target intellettualmente più sofisticato. Cose che magari non sono comprese o danno fastidio al popolo analogico – perché sono tanti quelli non interessa o fa paura essere avanti. Si teme Facebook perché poi tutti poi sanno i fatti nostri (come se nel paesello dove vivi, già non lo sapessero per via analogiche) . Non so se avete presente quello spot di quella compagnia telefonica che prende per i fondelli lo yoga e la meditazione. O quegli spot che faceva una radio contro le stesse cose, all’urlo di “Very Normal People”. Ecco, la normalità dell’allineamento culturale verso il basso e la presa in giro di chi (probabilmente un target culturalmente più alto) vola più in alto di calcio, gnocca e pastasciutta. Viva la gente normale che non è sofisticata e non ha bisogno di pensiero. Questo, provate a raccontarlo su Internet.
Ma va bene, tutti meritano rispetto per i loro stili di vita e i loro interessi. Solo che se io pratico Yoga, probabile faccia in qualche misura parte di una fascia “alta”. E magari abbia pure due telefonini, iPad e smartphone e magari sia un cliente alto spendente, con Internet mobile e via discorrendo. Un bel target per una telefonica. Che però, per portare a casa tanti clienti da 3 euro per ricarica, deve fare cose che danno fastidio a chi spende decine e decine di euro al mese. Già perché è proprio qui il problema: su tanti prodotti, il target è misto, lo trovo in parte su internet e in parte a guardare le velone. Ma magari tutti e due guardano un GP di Formula 1 o leggono la Gazzetta dello Sport.
Scontentare tutti
Su Internet devo “farlo moderno”, e quindi dare certi valori alla mia marca. E parlare in un certo modo, facendo non pubblicità ma interazione. Sulla tv generalista devo invece farlo popolare e unidirezionale, facendo vedere la bellona di turno, sennò non funziona (lo so, la sto mettendo giù un po’ da talebano, ma è per far capire dove voglio andare a parare). Di qui il rischio di una schizofrenia delle marche ad ampio raggio. Tirate da una parte e contemporaneamente dalla parte opposta. Una grande difficoltà a comunicare, perché quello che faccio su un target può farmi scappare l’altro target. Perché uno aspetta una marca contemporanea, conversazionale; e l’altro la vuole rassicurante e per nulla “famolo strano”. Dover articolare comunicazioni per un target, sperando che l’altro non le veda. Fare il social, ma contemporaneamente avere il comico da fiera paesana.
Fare una sana media e scontentare tutti, peraltro, non è in genere una buona opzione. Ecco dunque un altro effetto del digital divide (che non è solo di infrastrutture o di cablature, ma che è anche culturale). Che complica la vita a tutti noi che comunichiamo. Ma, come ci ha insegnato Internet, il problema è che come sempre abbiamo a che fare con delle persone e non con dei target. E questa è una cosa che complica orribilmente la vita a chi deve fare marketing e comunicazione.