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Il difficile rapporto tra le aziende italiane e l’informatica

25 Marzo 1998

Il difficile rapporto tra le aziende italiane e l’informatica

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Esiste una stretta correlazione fra la qualità generale di un'azienda e la corretta introduzione dell'informatica

Se si chiede a un manager, a un imprenditore, che tipo di formazione informatica pensa di avviare in azienda, è quasi certo che si riceverà sempre la stessa risposta: Windows, come funziona il PC, il DOS per tutti, Word per Windows, Lotus 1-2-3 e così via. Non stupirà, dunque, che la stessa risposta la si ottenga anche dai formatori cresciuti all’ombra di tali clienti. E allora chi è quel presuntuoso che osa contraddire tale onorato consenso?

Un attimo di pazienza per ricordare un paio di studi curiosamente poco ascoltati. Il primo, condotto tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, arrivava a sostenere che, a fronte di imponenti investimenti, nulla consentiva di affermare che l’informatica distribuita favorisse miglioramenti economici nelle aziende investitrici. Nessuno diede molta retta a queste considerazioni, visto che non si è smesso di investire. E, se non lo si è fatto, non è tanto perché si credeva nei PC, quanto perché non si poteva fare diversamente: ci si doveva adeguare alle scelte dei partner e dei concorrenti, non si poteva – in una parola – “non esserci anche noi”. Così, ai vecchi modelli di gestione, si affiancavano i nuovi, spesso senza che nessuno si ponesse il problema di integrarli.

I soli che diedero retta a questo messaggio furono quelli che la pensavano diversamente. Fra questi, un giovane ricercatore del MIT si prese la briga di condurre un monitoraggio longitudinale degli effetti dell’introduzione dei PC in più aziende nell’arco di diversi anni. La considerazione più importante che scaturì a molti potrebbe sembrare ovvia, ma così non è. Egli osservò una stretta correlazione fra la qualità generale di un’azienda e la corretta introduzione dell’informatica. In un’azienda di alta qualità tutto funziona in sinergia e, per questo, è praticamente impossibile separare gli effetti e le cause di un determinato fattore produttivo rispetto agli altri.

È facile invece inferire il contrario: in quasi tutte le buone aziende l’informatica è stata introdotta bene.

  • Il top management ci ha creduto, ha pilotato, pubblicizzato e sovrinteso l’intera operazione.
  • La transizione si è realizzata integrando il passato con il futuro.
  • Gli oggetti sono stati scelti in funzione degli obiettivi.
  • A nessuno è stato “messo sul tavolo un PC” con l’implicita indicazione di arrangiarsi a usare il nuovo giocattolo, ma si è spiegato a che cosa sarebbe servito, come si sarebbe dovuto usare e perché.
  • Nessun computer era veramente stand alone, ma lavorava in un processo di collegamento operativo con il resto del sistema.
  • Si è impostato un lungo piano di formazione e affiancamento dei singoli e dei gruppi, coerente con la strategia generale e centrato sugli obiettivi, anziché sui soggetti e sugli oggetti.

In definitiva, prima di dire se uno strumento nuovo serve o meno, bisogna comprenderne il vero senso e procedere a una corretta introduzione a partire da una interpretazione e una spiegazione felici. Non si può sommare un computer a un buono su piazza, così come alle elementari ci insegnavano che non si possono dividere le pere con le mele: una lezione quella che molti manager e imprenditori italiani devono avere marinato.

Oggi, alle tante aziende sature di PC mal utilizzati, si presenta un nuovo enigma: Internet.
David Lewis soprannomina “Internot” gran parte dei manager europei. Costoro non credono che la rete sia una risorsa strategica, mentre sono certi che non ci si facciano affari. In USA e in Asia quelli che gli affari li fanno, e grossi, hanno capito che Internet non è un computer e qualche programma, ma un territorio e un media, un mezzo da interpretare e sfruttare in modo creativo.

Qual è allora la soluzione all’indovinello con cui abbiamo aperto? Formare agli strumenti e ai programmi serve a poco, a nulla, o addirittura diventa controproducente (perché porta a fraintendimenti e a utilizzi negativi, a uno spreco di energie e tempo sull’uso del mezzo). Il mezzo non è l’obiettivo. Occorre preparare le persone perché conseguano gli obiettivi grazie a una riorganizzazione del lavoro potenziata dalle possibilità offerte dai nuovi mezzi. Questi devono essere intesi come strumenti cooperativi per un lavoro ancora più di gruppo, invece che individuale. Dev’essere chiaro che la loro adozione costringe a un “pensare” inedito, non solo il lavoro, ma soprattutto la comunicazione e il gruppo stesso.

Prima però bisognerebbe spiegarlo ai manager e agli imprenditori, ma questa è probabilmente una partita persa in partenza. Ancor peggio va con i fornitori di conoscenze, primi fra tutti i formatori, che capiscono solo quello che vuole il padrone (e oggi hanno un nome per rendere dignitosa questa pratica, “orientamento” al cliente) e hanno troppo da guadagnare dalla miseria dell’addestramento a mezzi e oggetti per sostituirla con sfide ardimentose che non sono in grado di comprendere, né mai lo saranno, e che quindi non saranno in grado di spiegare altrimenti che male.

Risultato: informatica, workgroup e Internet rimangono un’emorragia di risorse ingiustificata in buona parte delle aziende, una voce a pareggio per molte altre e una risorsa strategica, fonte di vantaggio competitivo per le poche che restano.

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