Parliamo di cambiamento
- Qual è il ruolo nel cambiamento del management di basso e medio livello
- Come cambia un’azienda per prosperare nel ventunesimo secolo
- Che cosa accade in una azienda in fase di cambiamento
- Quali sono le otto fasi del processo di cambiamento
- L’importanza dell’ascolto per il cambiamento
Qual è il ruolo nel cambiamento del management di basso e medio livello
Se il target di un cambiamento è una fabbrica, un ufficio vendite o un’unità operativa alla base di un’organizzazione più grande, gli attori principali saranno manager di medio o basso livello responsabili di quella unità. Saranno loro a dover ridurre il compiacimento e far aumentare il senso di urgenza.
Dovranno creare una coalizione per il cambiamento, sviluppare una vision che sia una guida, vendere quella vision alle altre persone e così via. Se hanno abbastanza autonomia, spesso possono farlo indipendentemente da ciò che accade nel resto dell’organizzazione. Se hanno abbastanza autonomia.
Senza sufficiente autonomia, in un’azienda in cui il compiacimento abbonda (situazione non rara oggi), uno sforzo di cambiamento in una piccola unità può essere condannato all’insuccesso sin dalla partenza. Prima o poi le forze più grandi dell’inerzia interverranno, indipendentemente da quello che fanno gli agenti del cambiamento al livello inferiore.
In circostanze del genere, procedere a testa bassa con uno sforzo di trasformazione può essere un errore terribile. Quando le persone se ne rendono conto, spesso pensano di avere un’unica alternativa: sedersi e aspettare che qualcuno in alto inizi a fornire una forte leadership. Così non fanno nulla e in questo modo danno ancora più peso a quelle forze d’inerzia che le fanno infuriare.
Poiché hanno il potere, i/le senior executive di solito sono gli attori principali nella riduzione delle forze d’inerzia. Ma non sempre: ogni tanto un’anima coraggiosa e competente a livello medio o basso nella gerarchia è strumentale alla creazione di condizioni che possono sostenere una trasformazione.
Il mio esempio preferito è quello di una middle manager in una grande azienda di servizi per il turismo che, quasi da sola, ha messo il top management di fronte ai dati che certificavano la crescente fragilità della posizione competitiva dell’azienda.
Ha usato un compito al di fuori della routine (portare un prodotto su un nuovo canale di distribuzione) come scusa per assumere dei consulenti. Con il suo incoraggiamento dietro le quinte, i consulenti fondamentalmente hanno dichiarato che l’azienda non sarebbe mai stata in grado di usare il nuovo canale con successo, a meno che non affrontasse prima una mezza dozzina di problemi fondamentali.
Le altre persone al suo livello si sono messe subito sulla difensiva, quando hanno visto i risultati del suo lavoro, ma lei è andata avanti decisa. Dotata di buon acume politico, ha saputo dirottare verso i consulenti le critiche mosse da negazione e rabbia. Aveva una incredibile capacità di uscirsene con frasi del tipo: Questo mi ha davvero sorpreso. I consulenti hanno combinato un guaio o qui c’è davvero qualcosa di importante?; Non riesco a credere che abbiano inviato la relazione a tutte quelle persone. Noi non lo abbiamo autorizzato; Ne sei convinto? Anche Gerry e Alice. Voi tre avete mai parlato di questi problemi?.
Nel mondo del ventunesimo secolo, dovremo tutti continuare a imparare e a crescere per tutto l’arco della carriera.
Se il senior management è formato solo da persone caute legate allo status quo, una persona coraggiosa e rivoluzionaria ai livelli inferiori non ce la farà mai, ma non ho mai visto un’organizzazione in cui tutto il top management sia contrario al cambiamento.
Anche nei casi peggiori, dal 20 al 30 percento delle persone sembrano rendersi conto che l’azienda non sta esprimendo tutto il proprio potenziale, vogliono fare qualcosa, ma si sentono bloccate. Le iniziative del middle management possono dare a queste persone l’occasione per attaccare il compiacimento senza essere viste come persone che non sanno fare gioco di squadra o che sono solo piantagrane.
Per chi fa parte del middle management e non riesce a trovare un modo per contribuire ad alzare il livello di urgenza in un’azienda che avrebbe bisogno di un cambiamento, ma in cui il senior management non possiede la necessaria capacità di leadership, una decisione di carriera accorta può essere quella di spostarsi altrove.
Nel contesto economico di oggi, molte persone spesso restano aggrappate al loro posto di lavoro, anche se la loro azienda non va da nessuna parte. Si convincono che, con tutti i ridimensionamenti, sono fortunate ad avere uno stipendio regolare e i benefit sanitari, ed è un atteggiamento comprensibile. Nel mondo del ventunesimo secolo, però, dovremo tutti continuare a imparare e a crescere per tutto l’arco della carriera. Uno dei molti problemi in un’organizzazione piena di compiacimento è che rigidità e conservatorismo rendono difficile l’apprendimento.
Timbrare il cartellino, ritirare lo stipendio, apprendere poco e lasciare che il senso di urgenza rimanga basso è nel migliore dei casi una strategia campanilistica e di corto raggio. Le strategie di questo tipo raramente hanno successo sul lungo periodo, né per le aziende né per le persone che vi lavorano.
Come cambia un’azienda per prosperare nel ventunesimo secolo
Nel ventesimo secolo, nelle organizzazioni le norme di gruppo e i valori condivisi erano prevalentemente barriere al cambiamento. Non è detto che debbano esserlo. Le culture possono facilitare l’adattamento, se danno valore alle buone performance per tutte le persone che hanno un interesse nell’organizzazione, se sostengono realmente leadership e management competenti, se incoraggiano il lavoro in team al vertice e se richiedono solo un minimo di livelli, burocrazia e interdipendenze.
Creare queste culture è un esercizio di trasformazione: aumentare il senso di urgenza, creare la coalizione guida e così via. Nella maggior parte dei settori oggi la sollecitazione a cambiare la cultura non è intensa, perciò è facile procrastinare. Lasciamo che sia la prossima generazione di executive a farlo. Le cose non vanno poi così male; guarda i ricavi netti dell’ultimo trimestre. Nel riflettere su tutto questo teniamo in mente un fatto: almeno uno degli attori nel nostro settore probabilmente non sta pensando in questo modo.
Le aziende veramente adattive, con culture adattive, sono macchine competitive straordinarie. Realizzano prodotti e servizi superbi, più velocemente e meglio. Si tengono alla larga da burocrazie gonfiate. Anche se hanno meno risorse e brevetti o meno quota di mercato, competono e vincono ripetutamente.
Le persone che sono state sballottate in ristrutturazioni, programmi qualità e altre cose simili, marginalmente efficaci, spesso temono che l’organizzazione adattiva in continuo cambiamento sarà l’inferno in terra. Non lo è. Da quel che ho visto fin qui, l’organizzazione adattiva può essere un ambiente di lavoro molto più gratificante di quello che è normalmente oggi.
Ricordiamo, il cambiamento in questo tipo di impresa non è un mezzo per soddisfare l’ego di qualcuno o una reazione isterica agli eventi di ieri. I cambiamenti servono per creare prodotti o servizi sempre migliori, che soddisfino bisogni umani reali a costi sempre più bassi. Vivere e vincere in quell’ambiente può essere divertente, perché si ha la percezione di fare qualcosa che vale davvero la pena.
Bisogna fare l’abitudine al ritmo del cambiamento, specialmente se si è trascorsa la maggior parte della propria vita lavorativa in mezzo a burocrazie vecchio stile. Dopo un periodo di assestamento, però, la maggior parte delle persone sembra apprezzare la qualità dinamica dell’ambiente. È stimolante. Non è mai noioso. Vincere è divertente. Per la maggior parte di noi, poi, dare un contributo reale è appagante per lo spirito.
Il cambiamento è andare da qui a là
Nella prossima tabella ho riepilogato le principali differenze tra nuova azienda adattiva e vecchia azienda ostile al cambiamento.
Ventesimo secolo | Ventunesimo secolo |
---|---|
Struttura | Struttura |
Burocratica. | Non burocratica, con meno regole e meno persone. |
A molti livelli. | Limitata a meno livelli. |
Organizzata con l’aspettativa che il senior management gestisca. | Organizzata con l’aspettativa che il management guidi, le persone a livello inferiore gestiscano. |
Caratterizzata da policy e procedure che creano molte interdipendenze interne complicate. | Caratterizzata da policy e procedure che producono la minima interdipendenza interna necessaria per servire la clientela. |
Sistemi | Sistemi |
Dipende da pochi sistemi di informazioni sulle performance. | Dipende da molti sistemi di informazioni sulle performance, che forniscono in particolare dati sulla clientela. |
Distribuisce i dati di performance solo agli/alle executive. | Distribuisce ampiamente i dati di performance. |
Offre formazione e sistemi di supporto per il management solo alle figure senior. | Offre formazione e sistemi di supporto per il management a molte persone. |
Cultura | Cultura |
Focalizzata sull’interno. | Orientata all’esterno. |
Centralizzata. | Caratterizzata dall’empowerment. |
Lenta a prendere decisioni. | Rapida a prendere decisioni. |
Politica. | Aperta e sincera. |
Avversa al rischio. | Più tollerante del rischio. |
Basta uno sguardo per vedere che stiamo parlando di una grande quantità di cambiamento fondamentale. Tanto cambiamento non avviene rapidamente.
Il singolo argomento forte presentato contro la necessità della trasformazione è che le organizzazioni possono avere successo con un cambiamento incrementale. Un miglioramento del 2 percento qui, una riduzione di costi del 5 percento là, e abbiamo vinto. Nel breve termine, in certi settori, può essere vero. Guardiamo però la tabella. Quanto pensate che ci vorrà, per passare incrementalmente dal modello del ventesimo secolo a quello del ventunesimo?
E quali pensiamo che saranno le conseguenze, se non ci arriviamo abbastanza rapidamente?
Leggi anche: Apprendimento permanente e leadership, di John Kotter
Che cosa accade in una azienda in fase di cambiamento
Poiché cambiare qualcosa di significativo in sistemi fortemente interdipendenti spesso significa cambiare quasi tutto, la trasformazione di un’azienda può diventare un esercizio enorme che si prolunga per anni, non mesi, in cui centinaia o migliaia di persone contribuiscono a guidare e gestire decine di progetti di cambiamento. Le qualità che caratterizzano questa fase sono elencate nella tabella di seguito.
1. | Più cambiamento, non meno. La coalizione guida usa la credibilità acquisita grazie alle vittorie di breve termine per affrontare progetti di cambiamento ulteriori e più grandi. |
2. | Più aiuto. Vengono chiamate, promosse e fatte crescere altre persone, che siano di aiuto per tutti i cambiamenti. |
3. | Leadership dal senior management. Le persone in posizioni senior si concentrano sul mantenere chiaro lo scopo condiviso dello sforzo complessivo e sul mantenere alto il senso di urgenza. |
4. | Gestione di progetti e leadership dal basso. Le persone ai livelli inferiori della gerarchia forniscono la leadership per progetti specifici e li gestiscono. |
5. | Riduzione delle interdipendenze non necessarie. Per rendere più facile il cambiamento sia sul breve sia sul lungo termine, i/le manager identificano le interdipendenze non necessarie e le eliminano. |
Qui, ancora una volta, la leadership ha un valore inestimabile. Leader eccellenti hanno la propensione a pensare al lungo termine. I decenni o addirittura i secoli possono essere finestre temporali significative. Sulla spinta di vision convincenti che trovano personalmente rilevanti, sono disposti ad andare avanti per realizzare obiettivi che per loro sono spesso psicologicamente importanti.
Mentre altre persone cambiano lavoro ogni due anni, i/le leader possono rimanere in una posizione junior anche per il doppio di quel tempo o in una senior per oltre un decennio. Anziché cantare vittoria e ritirarsi o andare oltre, lanceranno la dozzina di progetti di cambiamento spesso richiesti nelle fasi decisive di una trasformazione. Troveranno anche il tempo per assicurarsi che le nuove pratiche siano saldamente radicate nella cultura dell’organizzazione.
Per la natura dei processi di management, i/le manager spesso pensano per intervalli più brevi. Per loro, il breve termine è la settimana, il medio pochi mesi e il lungo termine un anno. Con quell’orizzonte temporale, dichiarare vittoria e fermare il cambiamento dopo 24 o 36 mesi può sembrare logico. Per le persone a cui è stata inculcata per decenni una mentalità manageriale, tre anni possono sembrare un tempo molto, molto lungo. Ancora una volta: senza una leadership sufficiente, il cambiamento entra in stallo ed eccellere in un mondo che cambia rapidamente diventa problematico.
Quali sono le otto fasi del processo di cambiamento
I metodi utilizzati nelle trasformazioni di successo si basano tutti su un’idea fondamentale: un cambiamento importante non si verificherà facilmente, per un lungo elenco di motivi.
Anche se un’osservatrice oggettiva potesse vedere chiaramente che i costi sono troppo elevati, che i prodotti non sono abbastanza buoni o che non si sta tenendo adeguatamente conto del cambiamento nelle esigenze della clientela, la trasformazione necessaria può comunque rimanere al palo a causa di culture focalizzate internamente, burocrazia paralizzante, politiche campanilistiche, un basso livello di fiducia, mancanza di lavoro di team, atteggiamenti arroganti, una mancanza di leadership nel middle management e la generale paura umana dell’ignoto. Per essere efficace, un metodo progettato per trasformare strategie, ridefinire processi o migliorare la qualità deve affrontare queste barriere e farlo bene.
Tutti i diagrammi tendono a ipersemplificare la realtà, perciò presento con un po’ di trepidazione la figura che segue.
La figura riassume le fasi che producono un cambiamento effettivo di una qualche entità nelle organizzazioni. Il processo si articola in otto fasi, ciascuna delle quali è associata a uno degli otto errori fondamentali che minano gli sforzi di trasformazione. Le fasi sono:
- Stabilire un senso di urgenza.
- Creare la coalizione guida.
- Sviluppare una vision e una strategia.
- Comunicare la vision del cambiamento.
- Dare a un’ampia base di persone potere e responsabilità perché possano agire.
- Generare vittorie di breve termine.
- Consolidare quanto si è guadagnato e produrre ancora più cambiamento.
- Istituzionalizzare i nuovi approcci nella cultura.
Le prime quattro fasi nel processo di trasformazione contribuiscono a scongelare uno status quo cristallizzato. Se il cambiamento fosse facile, non ci sarebbe bisogno di tutto questo impegno. Le fasi dalla quinta alla settima poi introducono molte nuove pratiche. L’ultima radica i cambiamenti nella cultura aziendale e contribuisce a farli attecchire.
Le persone fortemente sollecitate a mostrare risultati spesso cercheranno di saltare qualche fase (a volte parecchie) in uno sforzo per attuare un grande cambiamento.
Un executive intelligente e capace recentemente mi ha raccontato che i suoi tentativi di introdurre una riorganizzazione sono stati bloccati dalla maggior parte del suo team di management. Riporto, in sintesi, la nostra conversazione.
Le altre persone sono convinte che lo status quo non sia accettabile?, ho chiesto. Percepiscono davvero un senso di urgenza?
Alcune sì, ma molte probabilmente no.
Chi spinge per questo cambiamento?
Suppongo di essere soprattutto io, ha ammesso.
Lei ha una vision convincente del futuro e strategie per arrivarci che aiutino a spiegare perché questa riorganizzazione è necessaria?
Penso di sì, ha risposto, ma non sono sicuro di quanto siano chiare.
Ha mai provato a mettere per iscritto vision e strategie in forma concisa, su poche pagine?
Non proprio.
Il management comprende quella vision e ci crede?
Penso che tre o quattro delle persone chiave siano convinte, mi ha detto, poi ha ammesso: ma non sarei sorpreso se molte altre non capissero l’idea o non ci credessero del tutto.
Seguendo il modello della figura di prima, quell’executive era saltato immediatamente alla fase 5 nel processo di trasformazione con la sua idea di una riorganizzazione. Poiché ha sostanzialmente saltato le fasi precedenti, è andato a cozzare contro un muro di resistenza. Se avesse fatto ingoiare a forza la nuova struttura (cosa che avrebbe potuto fare), le persone avrebbero trovato un milione di modi astuti per minare i tipi di cambiamenti comportamentali che voleva. Lo sapeva, perciò si trovava, frustrato, a un punto morto. La sua storia non è fuori dal comune.
Le persone spesso cercano di trasformare le organizzazioni intraprendendo solo le fasi 5, 6 e 7, specialmente se sembra che una singola decisione (di riorganizzare, di effettuare un’acquisizione o di licenziare alcune persone) possa produrre la maggior parte del cambiamento necessario. Oppure superano le varie fasi di corsa senza rifinire il loro lavoro. Oppure trascurano di rinforzare le fasi precedenti mentre procedono oltre e di conseguenza il senso di urgenza svanisce o la coalizione guida si sfalda.
La verità è che, se si trascura una qualsiasi delle attività di riscaldamento o di scongelamento (fasi da 1 a 4), raramente si consolida una base adeguata su cui procedere. E, senza il completamento che ha luogo nella fase 8, non si arriva al traguardo e i cambiamenti non attecchiscono.
L’importanza della sequenza
Perché un cambiamento, quale che sia il suo ordine di grandezza, vada a buon fine, deve percorrere tutte le otto fasi, di solito nella sequenza indicata nella figura. Anche se normalmente ci si muove in più fasi contemporaneamente, saltarne anche una sola o andare troppo avanti senza aver creato una base solida quasi sempre porta a problemi.
Recentemente ho chiesto alle dodici persone al vertice, in una divisione di una grande azienda manifatturiera, di valutare a che punto si trovassero nel loro processo di cambiamento.
La loro valutazione era che avessero completato per circa l’80 percento la fase 1, al 40 percento la 2, al 70 percento la 3, al 60 percento la 4, al 40 percento la 5, al 10 percento la 6 e al 5 percento la 7 e la 8. Mi hanno detto anche che il loro avanzamento, che era andato bene per diciotto mesi, a quel punto stava rallentando, il che li faceva sentire sempre più frustrati.
Ho chiesto quale pensassero fosse il problema. Ne è seguita una lunga discussione, in cui continuava a emergere l’espressione la sede centrale della società. Le persone più importanti dell’azienda, fra cui anche il CEO, non erano sufficientemente coinvolte nella coalizione di guida, ed era il motivo per cui all’interno della divisione pensavano di aver svolto solo il 40 percento del lavoro nella fase 2.
Poiché non erano stati decisi principi di ordine superiore, per loro era quasi impossibile trovare un accordo sulle strategie più dettagliate della fase 3. La loro comunicazione della vision (fase 4) era invalidata, pensavano, dai messaggi provenienti dalla sede centrale, che nell’interpretazione delle persone risultavano incoerenti con la loro nuova direzione. In modo analogo, gli sforzi di empowerment (fase 5) venivano sabotati. Senza una vision più chiara, era difficile puntare a risultati credibili sul breve termine (fase 6). Andando avanti senza affrontare in modo sufficiente il problema della fase 2, per un po’ si erano illusi di avere fatto dei progressi, ma, senza quella base solida, tutta l’iniziativa alla fine aveva cominciato a vacillare.
Normalmente, si saltano dei passi perché si sente il fiato sul collo e si deve produrre. Le persone inventano anche sequenze nuove perché qualche logica, apparentemente ragionevole, impone una scelta del genere. Dopo aver fatto tutto bene nella fase dell’urgenza (fase 1), tutti gli sforzi di cambiamento finiscono per essere attivi in più fasi contemporaneamente, ma iniziare l’azione in un ordine diverso da quello indicato nella figura raramente funziona bene. Non si costruisce e non si sviluppa in un modo naturale: il tutto appare artificioso, forzato o meccanico. Non si crea quello slancio che è necessario per vincere l’enorme potenza delle fonti d’inerzia.
Progetti dentro progetti
La maggior parte delle iniziative di cambiamento importanti è costituita da molti progetti più piccoli che, a loro volta, tendono a percorrere un processo in più fasi. In ogni momento, quindi, ci si può trovare a metà strada dello sforzo complessivo, con alcuni dei tasselli più piccoli già completati mentre altri progetti si stanno solo avviando. L’effetto netto è una sorta di ingranaggi dentro ingranaggi.
Un esempio tipico per un’azienda di telecomunicazioni medio-grande: l’impegno complessivo, che mirava a migliorare la posizione competitiva dell’azienda, ha richiesto sei anni. Alla fine del terzo anno, la trasformazione era centrata sulle fasi 5, 6 e 7. Un progetto di reingegnerizzazione relativamente piccolo si avvicinava alla fine della fase 8. Una ristrutturazione dei gruppi di staff dell’azienda era solo all’inizio, con la maggior parte dello sforzo concentrata sulle fasi 1 e 2. Un programma qualità stava procedendo, ma in ritardo, mentre alcune piccole iniziative finali non erano ancora state avviate. I primi risultati erano visibili dopo i primi 6-12 mesi, ma i vantaggi maggiori non sono risultati evidenti fino quasi alla fine dello sforzo complessivo.
Quando un’organizzazione attraversa una crisi, il primo progetto di cambiamento all’interno di un processo di cambiamento più generale è spesso il salviamo la nave, un tentativo di invertire la rotta. Per un periodo che può andare dai 6 ai 24 mesi, le persone intraprendono azioni decisive per bloccare l’emorragia di cassa e mantenere in vita l’organizzazione. Il secondo progetto di cambiamento può essere associato a una nuova strategia o a una reingegnerizzazione, che possono essere seguite poi da un grande cambiamento strutturale e culturale. Ciascuno di questi sforzi attraversa tutte le otto fasi nella sequenza del cambiamento e ciascuno ha un ruolo nella trasformazione globale.
Poiché parliamo di molte fasi e di molti progetti, il risultato finale spesso è complesso, dinamico, un po’ caotico e può mettere paura. All’inizio, chi cerca di creare un grande cambiamento con processi semplici, lineari e analitici quasi sempre fallisce. Il punto non è che l’analisi sia poco utile. Una riflessione attenta è sempre essenziale, ma in gioco c’è molto di più che (a) raccogliere dati, (b) identificare opzioni, (c) analizzare e (d) scegliere.
Allora, perché una persona intelligente si affida troppo a processi semplici, lineari e analitici?
Perché le è stato insegnato a gestire ma non a guidare.
L’importanza dell’ascolto per il cambiamento
Poiché spesso la comunicazione di una vision è un’attività molto difficile, può facilmente trasformarsi in una stridula trasmissione a senso unico in cui l’utilità del feedback viene ignorata e le persone, anche senza volerlo, vengono fatte sentire prive di importanza. Negli sforzi di cambiamento che hanno un grande successo, questo succede raramente, perché la comunicazione è sempre bidirezionale.
Ho visto non pochi casi in cui le coalizioni guida non avevano recepito del tutto correttamente la vision, e alcune persone lo avevano capito o avrebbero potuto risolvere i problemi, se fossero state meglio informate. Poiché però non era stato sollecitato un feedback, gli errori non sono mai stati corretti se non molto avanti nel processo.
In un caso, in particolare, il problema si è dimostrato enormemente costoso (per spese non necessarie in tecnologia dell’informazione). Una mezza dozzina di giovani agenti di vendita, abituati all’uso del computer, avrebbero visto immediatamente, se fossero stati informati, che l’idea alla base degli acquisti di nuovo hardware e software per le vendite era sbagliata. Ma non è stato mai detto loro nulla, se non dopo l’arrivo delle nuove apparecchiature. A quel punto, però, dopo che un middle management con una minore alfabetizzazione informatica aveva accettato e implementato una vision sbagliata, correggere la rotta è stato molto costoso.
Cosa ancora più fondamentale, le discussioni bidirezionali sono un metodo essenziale per aiutare le persone a dare una risposta a tutti gli interrogativi che si presentano in uno sforzo di trasformazione. Una comunicazione chiara, semplice, memorabile, ripetuta spesso e coerente, proveniente da più fonti, con il comportamento degli executive a fare da modello, aiuta enormemente. La maggior parte delle persone, però, in particolare quelle istruite, si lascia convincere solo dopo avere avuto la possibilità di controbattere, cioè di porre domande, mettere in dubbio e discutere. Questo, ovviamente, è precisamente quello che succede quando la vision viene creata prima dalla coalizione guida.
Chi avvia il cambiamento a volte evita le comunicazioni bidirezionali per timore dei costi. La sua logica è inappuntabile: quali che siano i costi per un flusso di informazione a senso unico, per uno bidirezionale bisogna almeno raddoppiarli. Giustamente mette in evidenza che non è possibile far fare a tutti le stesse esperienze che ha fatto la coalizione guida, ma qui, ancora una volta, si sottovaluta l’utilità di fare in modo che il maggior numero possibile di manager veda gli eventi quotidiani attraverso le lenti della nuova vision. Se lo fa, invece, trova invariabilmente decine di modi molto economici per avviare un dialogo intorno alla vision. Cinque minuti durante la riunione per il lancio di un prodotto, due minuti in una conversazione in corridoio, dieci minuti alla fine di un discorso: i minuti si possono sommare e diventare migliaia di ore.
Se siamo noi a iniziare il cambiamento, a nostra volta magari evitiamo questa attività perché abbiamo paura che le nostre vision non riescano a superare il secondo round sul ring. Un comportamento comprensibile, ma spiacevole.
Se le persone non accettano una vision, le due fasi successive nel processo di trasformazione (dare alle persone il potere per agire in senso generale e creare vittorie sul breve termine) falliranno. Le persone non sfrutteranno il vantaggio di quell’empowerment né metteranno in campo il loro impegno per raggiungere quei traguardi. Peggio ancora, se accettano e poi cercano di implementare una vision formulata in modo inadeguato, come nell’esempio della tecnologia dell’informazione, verranno sprecati tempo e risorse preziose e molte persone ne soffriranno le conseguenze.
Il lato negativo della comunicazione bidirezionale è che il feedback può indicarci che siamo sulla strada sbagliata e che la vision deve essere riformulata. Sul lungo termine, però, ingoiare il rospo e rielaborare la vision è di gran lunga più produttivo che non continuare a testa bassa nella direzione sbagliata, o in una direzione che le altre persone non seguiranno.
Questo articolo richiama contenuti da Guidare il cambiamento.
Immagine di apertura di Linus Nylund su Unsplash.