Il fornitore d’accesso americano AOL riceve continue richieste da parte dei giudici americani che gli impongono di comunicare l’identità degli internauti che utilizzano i suoi servizi, ogni volta che su un sito viene pubblicato un testo ritenuto diffamatorio, offensivo o, comunque, illegittimo.
Nei giorni scorsi negli Stati Uniti, proprio in relazione a questo problema, si sono riuniti, attorno ad AOL, due dei maggiori garanti della libertà d’espressione: l’American Civil Liberties Union (ACLU), associazione per la difesa dei diritti dell’uomo, e l’Electronic Frontier Foundation (EFF), organismo di vigilanza sull’esercizio delle libertà sulla Rete.
La società, era stata coinvolta in un processo per diffamazione, intentato da un magistrato contro l’autore di un messaggio, firmato con uno pseudonimo, nel quale si lasciava intendere che il giudice aveva usato la propria influenza in occasione di alcune designazioni politiche.
Nel mese di novembre 2000, al termine di un primo giudizio svoltosi di fronte a un tribunale locale, il ricorso era stato respinto, sulla base della considerazione che “gli internauti anomini, a differenza dei media nazionali, sono vulnerabili, perché non dispongono di potere o di denaro. Senza l’anonimato, sarebbero meno inclini a esprimere delle opinioni controverse per paura di una rappresaglia”.
La decisione era stata accolta dall’ACLU, che era parte nel processo, come l’affermazione della prima forma di protezione mai stabilita nei confronti delle critiche on line ai personaggi pubblici.
Tuttavia, il numero delle cause intentate contro gli internauti anonimi è aumentato e la società americana continua a essere oggetto di citazioni – che comportano per l’azienda costi elevati, legati al tempo e alle spese necessarie per sostenere la propria difesa – con le quali i giudici le impongono di rivelarne i nominativi. L’anno scorso, AOL ha dovuto sostenere 475 richieste; il 40% in più che nel 1999.
AOL, il 5 marzo scorso, si è, pertanto, rivolta alla Corte d’Appello di Pittsburgh, in Pensilvania, per far valere il principio secondo cui questo “fastidio giuridico” è contrario alla libertà di espressione, garantita dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.