Lo proviamo tutti: le parole che proviamo a dire escono già con una nota sorda, pronte a infilarsi in un contenitore all’ammasso di interpretazione del loro significato. Twittiamo, chattiamo, parliamo, manifestiamo, ma anche guardando chi abbiamo vicino in una piazza, spesso, ci sentiamo attraversati dal vuoto. Magari ci guardiamo a uno specchio, e vediamo creature ansimanti e gesticolanti. Ha qualcosa da dirci al riguardo un ragazzo marchigiano di centottanta anni fa.
Restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé.
Se non c’è “società”, se non c’è la disponibilità a negoziare sul serio significati e relazioni, non ne consegue neanche l’eleganza, il buon tono (lo possiamo dire così, senza scomodare i francesi) che nasce dall’accordo comunicativo, dalla risonanza nello spazio di quello che diciamo. Ci ritroviamo ciascuno ad avere ragione: ma da soli, disperatamente.
(Il ragazzo marchigiano è il Marchese Giacomo Leopardi; il testo è dal “Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani”, del 1824, che ad esempio si può scaricare su BooksAndBooks.)