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I giovani e i media digitali, uno studio etnografico

26 Novembre 2008

I giovani e i media digitali, uno studio etnografico

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Negli Stati Uniti il Digital Youth Project mette a fuoco le potenzialità sociali, umane e didattiche del rapporto tra media digitali e giovani. Analizziamo i risultati con Matteo Bittanti, esperto di culture videoludiche e collaboratore del progetto

Che cosa fanno davvero gli adolescenti online? È tutta una perdita di tempo, o peggio, qualcosa di pericoloso? Oppure i new media servono a estendere amicizie, approfondire relazioni, espandere interessi? Queste alcune delle questioni affrontate in una ricerca appena pubblicata, Living and Learning with New Media, lo studio etnografico finora più ampio e articolato riguardo l’uso dei media digitali da parte dei giovani statunitensi: 800 giovani e giovani adulti intervistati, un totale di oltre 5.000 ore di osservazione online, un team di 28 ricercatori in sparsi nel Paese, coordinati dalla University of Southern California a Irvine e dalla University of California a Berkeley. Sponsorizzata dalla MacArthur Foundation nell’ambito del programma Digital Media and Learning, l’indagine ha diffuso pochi giorni fa i risultati online sotto Creative Commons, inclusa l’ampia bozza di quello che sarà il volume cartaceo previsto l’anno prossimo presso MIT Press. Risultati che, va chiarito, riguardano strettamente i giovani statunitensi e rifuggono facili generalizzazioni. È solo l’inizio di un più ampio lavoro in corso, denominato appunto Digital Youth Project: in primavera 2009 partirà la seconda fase, con un terzo dei collaboratori che hanno partecipato finora, sempre coordinati da Mizuko (Mimi) Ito, maggiormente mirata sugli aspetti critici, oltre che inclusiva di giovani utenti in vari Paesi dell’America Latina.

Il progetto appare dunque complementare e parallelo alle indagini curate, sulla costa opposta, dal Berkman Center for Internet & Society (Harvard University), che per ora hanno trovato sintesi nel volume Born Digital e annesse appendici online, di cui abbiamo scritto recentemente su Apogeonline. Nell’un caso e nell’altro trattasi di dare voce direttamente ai giovani, con percorsi dal basso e trasversali, e offrire interpretazioni contestualizzate per porre nella giusta prospettiva elementi positivi e negativi del quadro generale. Soprattutto, si tratta di spazzar via quei miti urbani duri a morire, che, complici parecchi media tradizionali, alimentano ancora l’idea di un “lato oscuro della Rete”.

In tal senso, l’indagine californiana rivela come gli adolescenti vadano sviluppando online importanti competenze sociali e tecniche – spesso in modi che gli adulti non capiscono o non valorizzano sufficientemente. Ciò grazie a un uso della Rete spesso finalizzato a intensificare rapporti quotidiani con persone che già conoscono. Cellulari, messaggistica istantanea e siti di social network contribuiscono ad approfondire le relazioni con amici e compagni di scuola, aprendosi al contempo in un inedito ma stimolante “spazio pubblico di rete”. Al contempo, una fetta più ridotta ricorre ai new media per creare e gestire nuove relazioni in ambiti verso cui nutrono interessi particolari. In entrambi i casi l’approccio all’apprendimento è autonomo e destrutturato, basato su prove ed errori, in ambienti orizzontali e arricchiti dal costante feedback altrui. Ciò consente agli adolescenti americani – conclude lo studio – di imparare a relazionarsi con gli altri e a gestire la propria identità pubblica, oltre che ad essere più motivati verso l’apprendimento in generale poichè questo arriva dai coetanei e non dagli adulti.

Di questo abbiamo parlato con Matteo Bittanti, ricercatore italiano che dal 2005 si occupa di New Media alla Stanford University e insegna Game Studies e Advanced Visual Culture presso il California College of the Arts nella Bay Area. Bittanti ha preso parte direttamente alla ricerca Digital Youth Project.

Quali sono il punto di partenza e la metodologia seguita in questo studio? Di cosa ti sei occupato in particolare?

Lo studio nasce dalla volontà di investigare un fenomeno incredibilmente complesso in modo equilibrato e ragionato, pur con la consapevolezza che ogni ricerca ha un determinato orientamento e prospettiva. In nostro approccio è etnografico e qualitativo: interviste, osservazioni prolungate, questionari, focus group eccetera. Siamo partiti dal fatto, cruciale per quanto apparentemente ovvio, che le nuove generazioni, nate nell’era digitale, danno per scontati alcuni fenomeni e comportamenti (il collegamento persistente alla rete, l’informazione just-in-time, l’idea che i contenuti digitali siano generalmente gratuiti) che per le precedenti generazioni non erano necessariamente essenziali o validi. Anche se è presto per stabilire gli effetti a lungo termine delle nuove tecnologie della comunicazione (per esempio, sulla psiche), come pure è impossibile formulare giudizi categorici: il fenomeno è troppo recente e i tempi/modi della ricerca hanno altri ritmi. Il mio ruolo era quello di studiare le comunità di videogiocatori disseminate in Rete per comprendere le strutture sociali che si formano attorno ai videogame.

Proprio riguardo i videogame, sono questi che spesso vengono accusati di incitare alla violenza, essere diseducativi, far perdere tempo ai ragazzi. Come rispondi a queste posizioni?

In realtà oggi le pratiche videoludiche travalicano simili luoghi comuni e prevedono un’interazione sempre più stretta tra settori apparentemente differenti sia a livello tecnico (videogame, cinema, televisione, animazione) che sociale (educazione, intrattenimento e divulgazione pubblica, tipo musei e parchi a tema) e imprenditoriale (editoria tradizionale, piattaforme online, strumenti digitali eccetera). Analogamente, i videogame sono (e saranno) sempre più lontani dai primitivi esempi di battaglie e uccisioni epiche, per diventare invece situazioni complesse che richiedono un network collaborativo e la creazione di comunità aperte e globali, integrando così l’aspetto “always on” del web sociale e strumenti mobili con le interazioni “reali” di tipo peer-to-peer.

Muoversi in ambienti come i Sims o World of Warcraft, ad esempio, è un’attività che non di rado coinvolge l’intera famiglia, almeno negli Stati Uniti, e va sostituendo tranquillamente la dama o altri giochi familiari, sociali. Per non parlare delle diffuse sub-culture dei fan, dalla creazione di mailing list, pubblicazioni, all’interazione ludica collettiva, di natura essenzialmente asincrona, che integra il fisico con il digitale, sfruttando gli spazi quotidiani come scenari possibili per performance ludiche. Insomma, è finita l’epoca del ragazzino che passa ore in garage o chiuso in camera tutto preso da videogame con sangue e violenza. Immagine poco veritiera anche anni fa a dire il vero, ma ancora troppo spesso usata come stereotipo.

Quali sono le possibili implicazioni a lunga scadenza soprattutto per educatori, mass-media e policy-maker?

Credo sia fondamentale sviluppare un occhio critico sui new media: questo richiede un loro uso accorto all’interno degli istituti formativi. Quindi le scuole devono aggiornarsi e usare le risorse esistenti in modo oculato, i docenti non possono fare a meno di aggiornarsi e di comprendere usi e abusi delle nuove tecnologie da parte dei loro studenti. A livello mediatico, le demonizzazioni a priori – da un certo “fenomeno bullismo” su YouTube ai reiterati attacchi contro i videogame – non servono a niente e a nessuno. I mass-media appaiono tuttora molto impreparati: la superficialità con la quale trattano argomenti inerenti ai new media, dai siti di social networking ai videogame, è imbarazzante. Mi riferisco in particolare alla situazione italiana: il gap tra i quotidiani italiani di maggiore tiratura e il New York Times, per fare un esempio, rimane abissale. Non parliamo poi delle televisioni (pubblica e commerciale) per ovvi motivi.

Le tecnologie digitali possono davvero avvicinare genitori e figli? E come possono i primi adeguarsi rapidamente al cambio di ruolo e responsabilità in atto?

Assolutamente sì. Per fortuna, i trentenni di oggi sono nati e cresciuti con la tecnologia quindi c’è meno preclusione. Oggi i videogame avvicinano le famiglie, anziché dividerle: dopo tutto siamo animali sociali, e la tecnologia va intesa come un mezzo, non un fine. Le giovani generazioni fanno spesso da mediatori tra gli adulti e il mondo della tecnologia. Sarebbe bello se tutti gli adulti fossero come il pensionato del romanzo Microservi di Douglas Coupland, che impara con umiltà e pazienza a usare il computer e a comunicare in maniera concreta ed efficace con il figlio geek.

La ricerca non sembra suggerire riflessioni critiche (o negative) sull’uso dei media digitali tra i giovani, rispetto ad esempio a mancanza di privacy, relazioni superficiali o commercializzazione dell’user generated content.

Mi trovi d’accordo: tieni conto, comunque che il mandato era descrivere quello che i giovani fanno in Rete e con i media digitali. Riteniamo che alcuni aspetti negativi – dall’omofobia su Xbox Live ai “predatori sessuali” su MySpace siano stati largamente amplificati e sopravvalutati dai mass media, per fini puramente sensazionalistici. Detto altrimenti: da quanto abbiamo potuto osservare, i vantaggi derivanti da un uso intelligente delle nuove tecnologie da parte delle nuove generazioni superano largamente quelli negativi. Ideologicamente parlando, questo studio è molto più vicino a Yokai Benkler che ad Andrew Keen, a Clay Shirky che a Clifford Stoll, a Chris Anderson che a Theodor Adorno. E comunque degli aspetti più critici si occuperà la seconda fase dell’indagine.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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