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Google sfibrata

09 Novembre 2016

Google sfibrata

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Gettata la spugna sul cablaggio in fibra degli USA. L'Italia non ci ha mai provato. Paralleli e divergenze di due fallimenti.

Riassunto delle puntate precedenti. Negli USA: nel 2010 Google lancia la divisione Google Fiber, che parte con due progetti pilota per cablare in fibra ottica tutte le abitazioni di due città, Kansas City (KS) e Kansas City (MS).

Il gigante di Mountain View sa che quanto più la gente usa Internet, tanto più alti sono i suoi guadagni; quindi offre accesso veloce (un gigabit) a cifre abbordabili. Sei anni dopo, la soddisfazione degli utenti è alta ma gli avanzamenti sono modesti, i costi superiori al previsto, le resistenze non indifferenti. Google Fiber acquisisce una azienda specializzata nello stendere reti veloci senza fili nei quartieri delle città, ma non basta, si ridimensiona, ma non basta; infine (ed è notizia di questi giorni) mette in pausa tutti i piani di espansione.

Nel Bel Paese i primi tentativi di cablare in fibra datano alla fine degli anni Novanta, quando Telecom Italia ancora aveva un sacco di soldi e poteva permettersi di pensare in grande. Poi FastWeb è passata nel centro delle più grandi metropoli, ma s’è fermata quasi subito per monetizzare l’investimento. Oggi nelle case degli italiani che abitano nelle città (non tutte) di alcune regioni (non tutte) arrivano gli operai delle compagnie telefoniche con una scatola etichettata in modo roboante modem fibra. Lo attaccano all’ottocentesco cavo di rame telefonico, salutano colla manina e se ne vanno.

Confezione di un modem fibra TIM

Di connessione in fibra, dentro questa scatola, nemmeno l’ombra.

 

Si tratta in realtà di una connessione VDSL sui vecchi cablaggi esistenti, per raggiungere la centralina di quartiere, unico posto dove la fibra è davvero arrivata. Velocità teoriche all’utente finale: tra gli 0,03 e i 0,1 gigabit/secondo. Reali, circa la metà. Se fossi un avvocato mi chiederei se la dicitura costituisca truffa e studierei seriamente la possibilità di una class action. Ricordo che l’Italia è e resta fanalino di coda in Europa. Se qualcuno vuole sentir parlare a ragion veduta di banda ultralarga, termine abusatissimo qui da noi, vada invece in Sud Corea, dove stan cominciando a rimpiazzare le vecchie connessioni in fibra da un gigabit con moderne connessioni da dieci gigabit.

DING DONG! Tesoro, è arrivato il postino con Internet! Che bello, ci saranno i miei nuovi dati di gioco di Halo. Chissà se sono riuscita a colpire qualcuno col fucile al plasma.

Se no, idea, torniamo a spedirci floppy disk, ribattezzandoli “Internet Italiana”.

 

Cosa c’è in comune tra l’esperienza statunitense malriuscita di Google e quella fallimentare di casa nostra? USA e Italia hanno scelto entrambi di far costruire la rete ai privati lasciando in ogni geografia una sola azienda all’opera (se volete una VDSL può darvela TIM, Vodafone, FastWeb, Tiscali o Infostrada, ma l’infrastruttura è quasi ovunque la medesima). Quindi non c’è concorrenza sulla qualità del servizio, e il progresso procede a velocità glaciale. In Sud Corea tre aziende sono costrette a competere ferocemente tra di loro e il governo si limita a sovrintendere.

Google poi ha commesso una leggerezza tipica. Abituata da sempre ad assumere personale geniale che sforna in contibuazione idee brillanti e rivoluziona lo status quo, l’azienda di Brin e Page aveva fatto conto nel 2010 di poter sviluppare e testare sul campo idee e tecnologie molto innovative per la diffusione della fibra. Se ci fossero riusciti, avrebbero potuto pacchettizzare e cedere a terzi tecnologie e piano industriale per il loro rilascio e diffusione sul territorio, in modo provato e dimostrato nei mercati dove Google Fiber lavora direttamente.

Invece così non è stato, per mille motivi. Perché scavare è difficile, perché bisogna affidarsi a terzisti, perché bisogna venire a patti con le amministrazioni locali, perché bisogna conoscere a fondo il territorio in cui si lavora sia nel suo tessuto imprenditoriale che idrogeologicamente. Addirittura, bispgna trattare con gli utenti finali: una cosa che a big G non viene naturale, abituata com’è a regalare i suoi servizi in cambio di montagne di pubblicità mirata.

L'autore

  • Luca Accomazzi
    Luca Accomazzi (@misterakko) lavora con i personal Apple dal 1980. Autore di oltre venti libri, innumerevoli articoli di divulgazione, decine di siti web e due pacchetti software, Accomazzi vanta (in ordine sparso) una laurea in informatica, una moglie, una figlia, una società che sviluppa tecnologie per siti Internet

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