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Fra top secret e veline, anche internet nel mirino del high-tech bellico?

17 Febbraio 2003

Fra top secret e veline, anche internet nel mirino del high-tech bellico?

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Dalla "guerra preventiva" in campo informatico/digitale alle norme ultra-liberticide del possibile Patriot Act II

E così anche internet viene scaraventata nella follia prebellica. Con tutte le strategie super-segrete dettate dall’occorrenza, ovviamente, pur se tradite dalle altrettanto immancabili “veline”. E in attesa di approvare ulteriori giri di vite contro gli utenti online, norme anch’esse gelosamente elaborate e custodite (o quasi). Già, avrebbe potuto forse essere diversamente? Quando la patria chiama tutti devono obbedire, digitale incluso. Ma il punto è: mentre i media tradizionali martellano duramente, 24 ore su 24, con le perentorie affermazioni del cow-boy di turno e la solita maggioranza silenziosa lavora alacremente per seppellire ogni dissenso, sembrano affievolirsi perfino i barlumi di speranza coltivati da e su internet. Oppure è il magma elettronico che ribolle underground prima dell’esplosione a cielo aperto?

Nei giorni scorsi è arrivato lo “scoop” sull’ennesima trovata geniale di Bush Jr.: la firma di un protocollo finalizzato alla “guerra preventiva” su internet. Si tratta dell’ennesimo atto segreto, anzi segretissimo, di cui nulla doveva trapelare agli ignari e ignoranti cittadini. Fatta eccezione per la “velina” del giorno, manovrata ad arte, la quale informa che siffatta direttiva segreta consentirebbe al governo di attivare quanto necessario per lanciare attacchi contro sistemi informatici stranieri. Una sorta di ciliegina sulla torta. Nel senso che le rampanti “necessità” del Pentagono, con annessi bilanci stratosferici assegnati alla Difesa, hanno accelerato la già tradizionale tendenza mirata, ad esempio, alla messa a punti di armi e arsenali ultrasofisticati con cui neutralizzare i sistemi radar nemici, mettere fuori uso centrali elettriche o provocare interruzioni dei circuiti telefonici — il tutto via internet e in remoto. In pratica, l’espansione nel digitale di quella strategia di “guerra preventiva” inalberata dall’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre 2001.

La firma presidenziale chiude una falla di tale strategia (strategia?), ovvero la mancanza di norme precise a determinare le circostanze atte al lancio di veri e propri attacchi informatici, nonché per stabilire a chi spetta l’autorizzazione e quali i bersagli legittimi o meno. Fedeli alla linea del massimo della potenza in tutti i campi per intimorire chiunque, alleati e avversari, i massimi vertici USA tentano dunque di addomesticare anche le più flessibili maglie della rete. Spazzando via le articolate dinamiche del campo informatico, ciò aprirebbe un’ampia breccia verso l’esplorazione di nuove forme di attività bellica, certamente non soltanto a livello potenziale. Poco importa che proprio gli Stati Uniti vantino un’infrastruttura informatica talmente complessa da risultare la più suscettibile al mondo di fronte a possibili attacchi e offensive, come dimostra tra l’altro la sempre maggior frequenza della libera circolazione di virus d’ogni tipo. Ancor meno importante, manco a dirlo, il fatto che simili aperture della “guerra preventiva” rischino di far naufragare irrimediabilmente gli ultimi bastioni di democrazia a partecipazione garantite da internet.

E se qualcuno avesse ancora dubbi al riguardo, basta dare un’occhiata alle news dell’ultimora. Anche qui si tratta di una “velina”, o almeno così pare: l’arrivo prossimo venturo di ulteriori norme “anti-terrorismo — nientepopodimenoché il Patriot Act II. In altri termini, il Ministero della Giustizia (meglio, l’onnipotente John Ashcroft), starebbe elaborando norme per espandere ulteriormente i poteri di sorveglianza e di detenzione assegnati al governo dal Patriot Act numero uno, approvato poche settimane dopo l’attacco contro il World Trade Center. Va ricordato che tale legislazione continua a suscitare aspre proteste da parte di cittadini e di associazioni a difesa dei diritti civili, oltre ad aver provocato un’ondata di arresti, per lo più ingiustificati e soprattutto gestiti nel segreto pressoché generale. Tra le varie misure previste nel Patriot Act numero due: la creazione di un apposito database che raccolga il DNA di terroristi e sospetti; la possibilità di immediata revoca della cittadinanza USA a quanti offrano “sostegno materiale” a gruppi terroristi; la detenzione segreta di sospettati e l’accesso ai loro dati personali in assenza di mandato preventivo.

A conferma dell’interesse (o della paura?) del governo per il magma digitale, l’elenco ovviamente si allunga: inasprimento di pene, minimo 5 anni, per l’uso di software di crittazione quando si commettono reati gravi; autorizzazione alle intercettazioni delle comunicazioni personali e-mail, senza specifico ordine giudiziario e fino a 15 giorni continuati, qualora il congresso autorizzi l’uso della forza o in caso di attacchi contro gli USA; ampliamento delle capacità tecniche dell’FBI nel monitorare la navigazione sul web a livello casalingo da 30 a 90 giorni. Attualmente le norme sulla sorveglianza elettronica presenti nel Patriot Act entrano in vigore, almeno sulla carta, soltanto dopo un’ufficiale dichiarazione di guerra.

La nuova proposta di Ashcroft, datata 9 gennaio e giunta in qualche modo al Center for Public Integrity che l’ha prontamente girata sul web, va sotto il titolo di Domestic Security Enhancement Act of 2003 e formalmente non rientra nelle iniziative del Dipartimento di Giustizia. Almeno, non ancora, volendo prendere per buono il rapido comunicato diffuso dallo stesso Dipartimento, in cui si legge tra l’altro che “sarebbe prematuro speculare su ogni futura decisione, soprattutto su idee e proposte tuttora in fase di discussione unicamente tra lo staff.” Chissà, una specie di pezza volante per minimizzare le ricadute della notizia inopportunamente svelata? Si tratterebbe, insomma, solo di una brutta copia ad uso interno, di cui né la Casa Bianca né altre agenzie o parlamentari avrebbero finora preso visione.

Comunque sia, non si sono fatte attendere le reazioni dei gruppi a difesa dei cyber-rights e oltre. Per Cindy Cohn, direttore legale della Electronic Frontier Foundation, “dobbiamo ancora verificare l’impatto del Patriot Act originale sulle libertà civili e ora il governo vuole ancora di più… dove sono le prove che la legge approvata meno di due anni fa sia insufficiente?” Lo stesso Center for Public Integrity ribadisce come il progetto consentirebbe alle autorità “enormi poteri di sorveglianza e repressione nazionale, restringendo al contempo le revisioni giuridiche e l’accesso pubblico alle informazioni.” Ancora più drastico Deirdre Mulligan, direttore del Samuelson Law, Technology and Public Policy Clinic: “Una proposta che provoca uno shock di coscienza; per quanto il Patriot Act fosse allarmante, queste norme sono decisamente eccessive.”

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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