«Smettere di usare Facebook è essenziale per il diritto alla privacy dei cittadini». L’ultimo atto del controverso rapporto tra Facebook e il governo tedesco è arrivato lo scorso 12 settembre quando Ilse Aigner, ministro per la tutela dei consumatori, ha inviato una lettera ufficiale ai suoi colleghi invitandoli a smettere di usare Facebook come strumento di comunicazione con i cittadini. Si tratta di un atto dovuto per dare il buon esempio, sostiene il ministro (che ha cancellato il suo account lo scorso anno in segno di protesta): Facebook non rispetterebbe, infatti, le rigide leggi sulla privacy dello stato tedesco.
Non mi piace
Un precedente c’è e risale al mese scorso: ad agosto lo stato dello Schleswig-Holstein, il più a nord della Germania, ha reso illegale il tasto “Mi piace” di Facebook, vietando a tutti gli uffici pubblici di essere presenti sul social network (con multe fino a 50.000 euro). La decisione è stata resa pubblica da Thilo Weichert, a capo dell’ufficio per la protezione dei dati personali dello Stato: Weichert sostiene che il tasto permetta a Facebook di acquisire informazioni sugli utenti conservandole per due anni, in contrasto con le leggi tedesche. Carl Sjogren, direttore della piattaforma, si è affrettato a precisare che Facebook cancella tutti i dati associati al tasto “Mi piace” dopo 90 giorni e che certamente l’azienda non usa quelle informazioni per profilare i suoi utenti. Ha inoltre annunciato novità nella possibilità di rendere anonime alcune delle interazioni sul social network.
Ma i problemi di Facebook (e di altre aziende che entrano in possesso di dati personali dei propri utenti) sono destinati a continuare: la legge sulla protezione dei dati personali in Germania – dall’impronunciabile nome di Bundesdatenschutzgesetz – è infatti tra le più restrittive al mondo. Alcuni studiosi ed esperti di privacy sostengono che la diffidenza teutonica sia da imputarsi alla storia degli ultimi decenni: tra il regime nazista prima e l’operato della Stasi (la temuta polizia segreta) poi, i tedeschi avrebbero sviluppato una forte reticenza all’idea che le proprie informazioni personali siano nelle mani di organismi esterni di qualunque tipo, sostiene Carsten Casper, analista di Gartner, in un’intervista alla BBC.
Rispettare le leggi
L’ipotesi è confermata dallo stesso Weichert, che rincara: «Le aziende americane vogliono fare profitti, ma devono rispettare le leggi europee e la cultura europea in termini di privacy». Ma se è vero che Europa e Stati Uniti hanno effettivamente una cultura molto differente quando si parla di privacy, diventa più difficile capire come questo si possa tradurre in termini legali. Sulla questione esiste infatti una direttiva europea del 2006, la Data Retention Directive: come tutte le direttive europee, però, anche questa offre delle linee guida che ogni stato implementa in una legge nazionale. Che cosa può fare un’azienda come Facebook, quindi? Intanto trovare un modo di collaborare, sembra essere la risposta.
Nelle scorse settimane, infatti, Richard Allan, responsabile di Facebook in Europa, ha incontrato il ministro dell’interno tedesco Hans-Peter Friedrich e insieme hanno firmato un accordo per la creazione di un codice di condotta sulla privacy che aderisca maggiormente alle leggi tedesche in materia. La decisione non ha mancato di creare dibattito nella classe politica tedesca e vivaci botta e risposta tra i ministri più disposti al dialogo e quelli più rigidi. Intanto domenica scorsa, nello stato di Berlino, le elezioni hanno visto l’ingresso del Partito Pirata tedesco nel Parlamento regionale, con quasi il 9% dei voti. Certo, Berlino non è la Germania, ma i “pirati” promettono di far sentire la propria voce in particolare sui temi della rete, che li contraddistinguono sin dalla nascita (avvenuta in Svezia nel 2006). Che direzione prenderà la politica tedesca sul tema della privacy?