Il 19 e 20 febbraio scorsi siti e giornali ribattono la notizia-bomba: Facebook può far ammalare, l’isolamento abbassa le difese. E giù con il dilemma: Facebook fa venire il tumore, nientemeno? Il Corriere giochiccia fra allarmismo e sdrammatizzazione: «Tumori, ictus, problemi cardiaci e persino la demenza. Meglio scollegarsi subito: chi sta usando Facebook o sta mandando messaggi con Twitter o si sta costruendo un avatar su Second Life è avvertito: il social networking online fa male alla salute». Per poi aggiungere: «Un po’ esagerati? In effetti sembra anche a noi, ma di tutto questo si dice convinto lo psicologo Aric Sigman in un articolo pubblicato su Biologist».
Ma è davvero così? Esiste un altro psicologo catastrofista, per giunta inglese, dopo che Paola Vinciguerra mesi fa aveva sentenziato che su Facebook ci vanno solo «uomini soli» (e un po’ nevrotici), con buona pace dei Pooh e delle ricerche del settore, che dimostrano ampiamente come social network online rispecchino più o meno il grado di socialità già presente offline nei partecipanti? Ma a noi psicologi che ci prende, quando si tratta di tecnologia? O sono i giornali che, altro luogo comune, riprendono male il nostro verbo rivelato?
Non volevo dire quello che ho detto
Non resta che controllare. E, sorpresa delle sorprese, fin dalla sua home page, lo psicologo incriminato avverte che il suo «paper è stato frainteso da giornali e cronache, secondo i quali sosterrebbe che il social networking causi cancro o altre malattie. Questo non è vero. Il paper si occupa della misura in cui il tempo speso online può rimpiazzare i contatti facci a faccia, e di come la mancanza di connessioni sociali sia associata a cambiamenti fisiologici, un’aumentata incidenza di malattie e una più alta e prematura mortalità». Precisazione che puzza di bruciato. Specialmente se associata alla foto da aspirante bel tenebroso che campeggia in home page. Doctor House, trema, c’è un nuovo concorrente che scopre correlazioni mortali misteriose fra fenomeni apparentemente lontani? Se si indaga un poco si scopre che questo doctor Sigman, che vanta (come peraltro la nostra Vinciguerra) un curriculum e affiliazioni importanti – insomma, non è messo male come social network – questo Sigman, dicevo, non è nuovo ad anatemi del genere. Nel 2005 ci aveva spiegato nientemento come «la tv ci stia (letteralmente) uccidendo».
Il metodo è sempre lo stesso: nessuno studio originale, ma una ragionata rassegna di molti studi di settore medico. Ma davvero seri studi scientifici dicono questo? E che cosa sostiene di preciso la nuova rassegna del dottor Sigman (fortunatamente disponibile online)? Ebbene, la prima sorpresa è che non menziona neanche una volta il più famoso dei social network online, cioè Facebook. Mai citato. E che non cita nemmeno in generale i siti di social network. Qui la cosa scotta. E allora perché tutte le agenzie e molti giornalisti (non solo italiani: basti leggere il britannico The Register) riprendono la notizia associandola a Facebook, ma anche a Twitter o LinkedIn (mai citati nel paper)? Il solito giornalismo superficiale e fazioso? In parte. Ma, a un’attenta lettura del paper, ci sono almeno altre due concause di questo fraintendimento.
Connettersi da morire?
La prima, è che il dottor Sigman ci mette del suo. La parte centrale del suo paper è infatti dedicata a una serie di interessanti e autorevoli studi sull’incidenza dell’isolamento e della solitudine, cioè sulla mancanza di legami sociali, su alcuni fenomeni fisiologici che aumentano anche sensibilimente il rischio di malattie e di mortalità. Insomma, stare soli deprimemerebbe le difese immunitarie. Questa non è una novità, sebbene molti studi in proposito siano recenti. C’è anche da dire che Sigman non specifica con gran dovizia di particolari come viene definita o misurata la solitudine nei diversi paper. E qua e là in rete qualcuno ricorda, ad esempio, che in geriatria è noto da tempo come la solitudine, ma solo se non voluta, cioè se non dipende da un tratto caratteriale ombroso, porti a una maggior mortalità. Sia sotto forma di suicidi che di malattie organiche: il paper ha invece il difetto di mescolare un po’ tutto.
In ciò aderendo probabilmente alle più recenti tendenze di una medicina “biopsicosociale” che spinge, giustamente, a vedere il disagio e la malattia come fattori multifattoriali dalle molteplici componenti, sia fisiche che sociali. Approccio che condividiamo in pieno: tuttavia, dal punto di vista delle statistiche, il fatto che uno muoia per suicidio invece che per malattia qualcosa dovrebbe suggerire sul differente trattamento di quel dato e sulla sua divulgazione. Ma il punto è proprio questo: la solitudine (almeno quella non voluta) aumenta il tasso di mortalità. E vi sono molte conferme al riguardo. Ma i siti di social network? Tutta la prima parte del lavoro di Sigman è dedicata a spiegare come negli ultimi 20 anni in Gran Bretagna il tempo speso in contatti umani diretti stia declinando, e come contemporaneamente stia aumentando il tempo speso a contatto con le tecnologie. Abbastanza clamoroso il grafico astratto da Sigman sulla base di serie temporali e studi demografici, che mostra l’andamento del fenomeno.
E Facebook?
Se il fenomeno inizia almeno negli anni ’80, che cosa c’entrano le nuove – e le nuovissime – tecnologie? Non si sa. Dopo aver sottolineato questa correlazione inversa fra interazione sociale e uso di mezzi elettronici, Sigman abbandona il tema e si dedica alla sua rassegna sulla solitudine. Ma che cosa voleva dire? Che è l’uso dei mezzi elettronici che porta a una maggior solitudine? O che a una generale tendenza a una vita sociale più atomizzata si accompagna – magari come forma di compensazione – un più frequente uso di tecnologia? Ancora una volta qui si rischia di scambiare una correlazione per un rapporto causale, concludendo cioè che la tecnologia provochi solitudine. E, con il sillogismo successivo, che poiché la solitudine provoca morte, come peraltro i poeti sostengono da secoli, allora la tecnologia provoca morte.
Poca riflessione viene dedicata al fatto che, semplicemente, il nostro intero stile di vita è in questi venti-trent’anni cambiato radicalmente. Certo, la tecnologia ha un impatto importante sui modelli di comportamento e di organizzazione sociale che costruiamo. Ma ce l’hanno anche le logiche economiche, di produzione, e le tendenze politiche, per dirne alcune, che spesso usano la tecnologia come strumento (e ne sono al tempo stesso cambiate). Spesso la tecnologia è tanto causa quanto conseguenza di fenomeni sociali più ampi. Ma di questa complessità nel paper si trova scarsa traccia.
Social network
La seconda causa di fraintendimento è l’uso stesso del termine social networking. Il termine è in uso nella letteratura scientifica sociale da molto tempo prima che diventassero di moda i social network online, e sta a indicare delle generiche strutture sociali, non importa se off o online. Il paper usa il termine per dire che la mancanza di social networking genera solitudine, e dunque malattia. Intendendo con social networking, per l’appunto, una generica interazione sociale. Dunque, l’accezione corretta è semmai l’opposta di quella suggerita dai titoli di agenzie e giornali: i social network sono associati a un tasso di mortalità più basso, come si può dedurre facilmente dai titoli originali delle ricerche citate da Sigman. Solo che anche in questo caso non si vuol significare che i social network online sono associati a minor mortalità. C’è proprio un uso confondente dello stesso termine per due fenomeni diversi.
Morale: Sigman si dedica a un esercizio di correlazione lasciando intendere che vi sia una causalità tutta da dimostrare. E comunque il suo articolo si occupa di solitudine, non di Facebook. Semmai Facebook, come molte ricerche sembrano indicare, è uno strumento utile per gestire relazioni, e dunque uno strumento contro la solitudine. Ma forse l’idea della tecnologia alienante e, in fin dei conti, mortifera è talmente radicata nel nostro immaginario che preferiamo raccontarci delle storie piuttosto che leggere la realtà. Di cosa parleremmo sennò su Twitter e su Facebook?