Volente o nolente, il music business deve rinnovarsi al più presto. Verità sacrosanta, ribadita da fan ed esperti, ma tuttora difficile da digerire per le major del disco. Oppure no? Nel senso che, in questo scorcio di fine estate, vanno registrati alcuni risvegli importanti, o quantomeno qualcosa di simile. Sulla spinta del successo mondiale di iTunes (500 milioni di download) e analoghi servizi, il mercato della musica digitale sembra cioè spostarsi verso la tanto auspicata differenziazione di modelli e formati, seppur con la tipica lentezza che gli compete. Questo il segnale in arrivo sia dalla recente Music 2.0, terzo summit californiano sulla Music Industry in the Digital Age, sia da altre situazioni in rapido divenire.
L’evento della Silicon Valley ha posto in primo piano le relazioni di pezzi grossi di Sony BMG e JupiterResearch, pur senza disdegnare gli interventi dell’Editor in Chief di Wired Magazine e di Fred von Lohmann, legale per Electronic Frontier Foundation. Con l’immancabile serie di panel, tavole rotonde e quant’altro per arrivare all’analisi dei molteplici trend relativi all’odierno business della musica digitale, dalla portabilità alla pirateria, dal marketing online alla proliferazione di servizi mirati. Da cui si ricava che nel prossimo futuro le etichette discografiche punteranno a offrire ogni tipo di musica tramite modalità e canali i più disparati. Ampliando così la portata dei dati più recenti forniti da Thomas Hesse, presidente del global business per Sony BMG: il 10 per cento delle entrate in USA, e oltre il 20 di quelle in Cina e Corea del Sud, arriva da prodotti digitali e mobili. “Assisteremo alla differenziazione delle tariffe nel mondo online – ha aggiunto Hesse -. Ciò andrà concretizzandosi tramite fasi/finestre diverse nel corso del tempo, e sarà assai più sofisticato del download da 99-cent impostato finora”.
Dal canto suo la International Federation of the Phonographic Industry riporta 180 milioni di canzoni vendute via internet nella prima metà del 2005, con una crescita di 57 milioni rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Intanto alcuni titoli forti di Warner Music vedono un 10-20 per cento di vendite online nelle prime settimane di uscita, mentre non va dimenticato il forzato mutamento in atto nelle stesse major, pressate dalle molteplici offerte in ambito entertainment da un lato e dall’altro dall’aggressivo ingresso nel settore di altri giganti, quali carrier telefonici e mega-portali che offrono di tutto un po’.
Lo scenario si complica ulteriormente con il fresco annuncio, ad esempio, del lancio della “e-label”, sempre da parte di Warner Music. Un nuovo meccanismo distributivo centrato sul download invece dei comuni compact disc, e che vedrà gli artisti diffondere gruppi di tre canzoni ogni paio di mesi, anziché il classico CD completo una volta ogni due o tre anni. “Stiamo sperimentando un nuovo business model – ha spiegato Edgar Bronfman Jr., CEO e chairman di Warner Music -. Vogliamo proprio vedere dove ci porterà”. Aggiungendo che gli artisti conserveranno comunque diritti e proprietà dei master di registrazione e ribadendo di non approvare “interferenze governative in quelli che dovrebbero essere comuni meccanismi di mercato”, appoggiando tuttavia i requisiti mirati a filtrare il materiale in circolazione nelle reti peer-to-peer nonché possibili balzelli su iPod e simili, come proposto in Canada.
Cresce nel frattempo il numero di campus universitari che offrono abbonamenti alla musica online (e, in qualche caso, anche ai film). Sono oltre 50 gli istituti secondari che hanno firmato accordi con i vari servizi, rispetto ai circa 20 dello scorso anno scolastico, e molti altri prevedono di farlo a breve termine. Secondo un sondaggio di 900 istituti curato dal consorzio didattico-tecnologico Educause, il 4 per cento dei college statunitensi usa attualmente dei programmi di file-sharing, mentre si appresta a fare lo stesso il 2 per cento e il 17 per cento ne considera l’adozione. E quasi la metà degli istituti di dottorato sta valutando specifici accordi con qualche provider. Il tutto nonostante risposte non proprio entusiaste da parte degli studenti, come invece sarebbe stato lecito attendersi. È il caso della American University, che dallo scorso febbraio ha avviato un test semestrale con Ruckus. Ebbene, il sondaggio finale ha rivelato una serie di lamentele: non c’erano abbastanza canzoni, vecchiotti i film, software poco user-friendly, utenti Macintosh tagliati fuori. Inoltre, il 41 per cento degli studenti segnalava un netto calo nell’uso del servizio dopo i primi tre mesi, una volta svanita cioè la curiosità iniziale. Ragioni che hanno portato gli amministratori universitari ad optare ora per Napster, mentre la Pennsylvania State University stima che meno del 40 per cento dei suoi 70.000 studenti usa i servizi garantiti loro da Napster.
Ma il punto è che, nonostante simili insoddisfazioni siano diffuse anche in altri college, questi continueranno ad offrire servizi di file-sharing. Secondo Julie E. Weber, dirigente della American University, al pari dell’accesso a internet e della TV via cavo, il downloading sta diventando una “amenità che gli studenti si aspettano di avere nei loro dormitori.” Oltre al fatto che, policy attiva da tempo, il file-sharing legale rimane parte cruciale dei progetti complessivi mirati a ridurre la pirateria online, notoriamente rampante proprio in ambito universitario. Gli effetti concreti di tale policy restano comunque da comprovare: i dati di un altro sondaggio condotto alla University of Rochester, ad esempio, suggeriscono come i servizi legali siano un affiancamento, piuttosto che un’alternativa, al download illegale. Mentre il 58 per cento dei 10.000 studenti dichiarava di usare regolarmente Napster, il 56 per cento di loro ricorreva anche a programmi quali KaZaA, LimeWire e Direct Connect.