Secondo Baldur Bjarnason gli ebook sono funzionali a mantenere l’ordine delle cose. Sono un’innovazione potenzialmente dirompente che è stata dirottata, controllata e guidata dagli operatori storici dell’industria editoriale.
Per quanto possa sembrare il contrario, l’innovazione portata dall’editoria digitale non è così radicale da essere dirompente, da minare alle fondamenta un mercato esistente e consolidato. I formati software e hardware di lettura disponibili – compresi quelli standard – rispondono all’esigenza di rendere i contenuti digitali senza alterare le caratteristiche economiche fondamentali dell’industria: produrre, distribuire e vendere contenuti all’interno di contenitori definiti e in un regime di scarsità indotta, ottenuta grazie all’impiego di protezioni anticopia (DRM) e alla costruzione di ecosistemi chiusi.
Che non si tratti di un’innovazione dirompente è un sospetto confermato da altri indizi. A quasi due anni dal rilascio delle specifiche di ePub 3, l’implementazione del nuovo standard è praticamente nulla. Bill McCoy – direttore esecutivo di IDPF – ha ammesso la situazione, in questi termini:
Diciotto mesi dopo […] diversi tra i principali sistemi di lettura supportano unicamente il vecchio ePub 2 e anche i fornitori che hanno adottato ePub 3 non utilizzano il 100% delle sue funzionalità.
Sono gli stessi dubbi di un anno fa, e in un anno la situazione non è cambiata. Da un certo punto di vista è comprensibile che sia così. Adottare ePub 3 – come ha deciso di fare quasi unilateralmente O’Reilly – non porta vantaggi immediati per la maggior parte degli editori. Le sue potenzialità multimediali e interattive sono di fatto inutilizzabili e i vantaggi che derivano dalla possibilità di creare metadati più precisi e di dotare i contenuti di markup semantico, per quanto importanti, sono raramente percepiti come tali. Costruire strutture informative diffuse e lavorare con contenuti strutturati in modo significativo sono attività di scarso interesse se ancora si fatica a comprendere il modello tecnologico ed economico relativamente semplice che sostiene ePub 2.
Dati questi presupposti, il lavoro condotto – tra gli altri – da Safari Books Online e da Hugh McGuire per rendere i libri digitali oggetti connessi, consultabili all’interno di un browser e dotati di interfacce di programmazione (API) pubbliche e dettagliate rischia di cadere nel vuoto. Le resistenze sono di due tipi: da un lato manca un modello economico definito e si teme che la pirateria dilaghi (sempre che la scellerata ipotesi di introdurre i DRM direttamente in HTML5 non diventi realtà); dall’altro, a quanto pare trasformare un libro in un sito web è qualcosa da non fare a prescindere, per principio. Il problema – come nota Pablo Defendini sul blog di Safari Books Online – è questo:
più aumentano i dispositivi e i servizi di lettura, più diventa difficile realizzare tutte le versioni di un libro necessarie a raggiungere tutti i dispositivi e tutti i contesti di lettura, e il processo è destinato a diventare sempre più dispendioso in termini di tempo e probabilmente più frustrante di quanto non lo sia già.
Un’industria che non riesce ad assecondare i cambiamenti e a scalare verso l’alto con regolarità e facilità non è in grado di tenere il passo e nella migliore delle ipotesi è destinata a rincorrere, continuare ad adattarsi a decisioni prese da altri. Una delle soluzioni possibili è quello che Defendini chiama streaming book: un libro diviso nelle sue componenti discrete, i cui contenuti e risorse sono ospitati su server, pronti a essere assemblati e distribuiti a seconda delle esigenze del lettore.
Nel frattempo è ancora O’Reilly a lanciare un segnale chiaro, chiudendo le conferenze TOC: si è parlato a lungo, quello che c’era da dire è stato detto, gli strumenti per il cambiamento sono a disposizione di chiunque intenda utilizzarli. Ora è il momento di fare.