Digital divide. Una delle spade di Damocle che continua a pesare sulla penetrazione di Internet. Forse ancor più oggi quando tale penetrazione viene definita “satura”, almeno per quanto concerne il grande pubblico acculturato dell’emisfero occidentale. Però: sull’onda di qualche delusione e disaffezione all’uso di Internet, rischia di cadere nel dimenticatoio anche questa costante spaccatura tra “have” e “have-nots”, da intendersi ovviamente a livello trasversale nonché globale. Vale quindi la pena di riparlarne, illustrando rapidamente alcune recenti iniziative ad hoc, riprese dal panorama statunitense (pur se tutt’altro che mainstream).
È intanto utile partire da alcuni passaggi esposti nel documento conclusivo stilato dal Global Forum sull’e-government svoltosi due mesi addietro a Napoli. Ricordando che a seguito dello stesso è attivo online uno spazio di discussione aperto a tutti, l’occasione si ripropone come utile raffronto rispetto alle enormi necessità pratiche che occorre ancora implementare in ogni dove, ben oltre le buone intenzioni. Offrendo una panoramica sulle problematiche complessive del digital divide odierno, il documento dichiara tra l’altro:
“Da varie esperienze concrete è emerso il valore delle
ICT per il miglioramento dei servizi, anche nei paesi più svantaggiati. E la capacità di comunicare rapidamente può ridurre il senso di isolamento delle regioni più remote e contribuire al loro sviluppo economico. Affinché questi
benefici siano realizzati, i Paesi in via di sviluppo debbono poter accedere alla tecnologia, a costi minori e con programmi formativi che ne garantiscano un utilizzo effettivo. Senza tali premesse il digital divide si trasformerebbe in una spaccatura sempre più profonda. Non si può permettere che ciò accada.”
Vero, verissimo. Però, ad esempio, mentre in Nord America il 96 per cento della popolazione ha il telefono in casa, tale percentuale cade al 40 per cento nelle riserve indiane con picchiate del 17 per cento in alcuni avamposti del territorio Navajo. La rampante diffusione anche in USA dei cellulari sta migliorando la situazione, ma questi non funzionano in quelle zone scoscese e montuose che spesso caratterizzano le stesse riserve. Basti pensare cosa significhi non poter chiamare prontamente i servizi emergenza quando occorre, in casi di vita o di morte. E su un altro importante fronte comunicativo, quello delle radio private, va ricordato come solo lo scorso dicembre ha aperto i battenti la trentesima emittente indiana, nella riserva Hopi (KUYI-FM). Progetto creato e portato avanti con enormi sforzi dall’intera comunità locale, con fondi e supporto tecnico raccolti un po’ ovunque. Anche perché non è certo un mistero come l’industria radio-TV non sia affatto interessata a sostenere o aiutare operazioni simili. Comunque sia, nel corso di quest’anno si prevede il lancio di altre tre stazioni similari, in Montana ed Arizona. Ciò a fronte delle svariate migliaia di radio più o meno commerciali che operano da sempre sul territorio statunitense. Ovvio che il quadro poco rassicurante tenda ad amplificarsi ulteriormente quando si passi al collegamento e all’utilizzo di Internet in tali zone.
Uno dei pochi progetti sviluppati in questo senso è quello del NITI (National Indian Telecommunciations Institute) grazie a contributi governativi e privati dell’ordine dei 500.000 dollari annui. Struttura nonprofit con base in Santa Fe, New Mexico, l’inizativa ha offerto aiuto sostanziale nel Comance Language Project, un CD-ROM interattivo a tutela della lingua originaria di quella popolazione, ormai quasi dimenticata. Da segnalare anche l’avvio di un museo virtuale, tramite pagine web attualmente in fase di realizzazione, dedicato agli artisti dei vari pueblo locali. Oppure il supporto per insegnare a genitori Navajo i rudimenti dell’HTML onde procedere alla realizzazione di semplici pagine web in cui condividere questioni d’interesse generale e comune — dal rispetto per la cultura nativa ai problemi connessi con gravidanze e alcolismo assai diffusi oggi tra i giovani delle riserve. Come pure sul tema della disoccupazione, altra piaga che da anni costringe all’abbandono di quei luoghi, insieme ad una obiettiva inospitalità degli stessi.
Proprio per sopperire almeno in parte a quest’ultima tematica, è stato appena avviato un altro progetto interessante. Qualche settimana fa il Southern California Tribal Chairmen’s Association, organizzazione composta da
18 tribù dell’area di San Diego, California Meridionale, ha ricevuto un consistente sussidio (5 milioni di dollari) da parte di Hewlett-Packard. Obiettivo finale: la realizzazione di un vero e proprio Digital Village. Pur lasciando direttamente nelle mani dell’associazione la decisione su come impiegare al meglio tali fondi, sono state già avviate partnership con la stessa HP, la University of California-San Diego e il noto San Diego Supercomputer Center. Nucleo centrale del piano sembra essere la costruzione di un network inter-tribale capace di collegare le varie riserve con infrastruttura wireless, ad alta velocità e larga banda. Il tutto, quando sarà pronto, a beneficio dell’ampia comunità della zona, almeno 20.000 persone.
Va detto che da tempo HP è impegnata nel tentativo di colmare il gap del digital divide. Lo scorso anno ricevette molta pubblicità, con annessa cerimonia alla presenza di Clinton, l’avvio di progetti informatici per le famiglie dal basso reddito residenti nell’area di East Palo Alto — 15 milioni di dollari i fondi stanziati. Mentre si allunga l’elenco delle comunità che fanno richiesta di supporto economico presso le grandi società high-tech. Ciò a testimonianza della necessità di “ridurre il senso di isolamento delle regioni più remote e contribuire al loro sviluppo economico”, come recita appunto quel testo del Global Forum. Una necessità che si fa sempre più pressante e che andrebbe affrontata con maggior risolutezza, forse proprio a partire dalle aree dimenticate del Nord del mondo.