Non agitatevi. Non è cambiato niente.
Il cosiddetto “decreto Urbani“, la legge antipirateria che a detta di alcuni dovrebbe essere l’arma finale per stroncare i circuiti peer-to-peer, è l’equivalente legale della strega cattiva di Biancaneve: fa paura ed è brutta, ma è senza denti.
Secondo alcune drammatiche interpretazioni, questo decreto consentirebbe ai provider di fare da gendarmi dei circuiti peer-to-peer e spianerebbe la strada alle retate di utenti che abbiano scaricato un film da Internet o che abbiano semplicemente frequentato un circuito di scambio. L’Italia, si dice, starebbe per diventare uno “stato di polizia”.
Non è vero, perché il decreto è semplicemente inapplicabile. E questo è un male, perché come disse Einstein, “non vi è nulla di più distruttivo per il rispetto del governo e delle leggi che l’emanar leggi che non è possibile far rispettare”. Il buon Albert parlava del Proibizionismo statunitense dell’inizio del secolo scorso, ma le analogie con quell’esperimento infelice sono purtroppo assai calzanti.
Ripeto: state tranquilli. Non è cambiato niente, anche se in tanti vogliono farlo credere.
Passato il panico? Allora ragioniamo
Prima di tutto, scaricare e distribuire via Internet qualsiasi materiale (musica, video, foto), se fatto contro il volere di chi ne detiene il diritto d’autore, era illegale anche prima e ovviamente rimane illegale anche adesso. Il decreto Urbani prevede una sanzione amministrativa di 1500 euro, la confisca degli “strumenti” (il PC? il modem? Il cavo Ethernet?) e la trascurabile gogna della pubblicazione del provvedimento sui quotidiani. Ma della galera preannunciata dalle solite Cassandre non c’è traccia: c’era nelle bozze del provvedimento, ma è stata rimossa.
Non fate quella faccia: lo so che ormai c’è un’intera generazione di internauti, cresciuta online nei cinque anni ormai trascorsi dall’esordio di Napster (quello originale, non il cadavere riscaldato attuale), che è convinta che sia suo “diritto”, in virtù della consuetudine, scaricare tutto quello che trova in Rete. È ora di svegliarsi: in proposito ci possono essere giustificazioni etiche in determinate circostanze (scaricare un MP3 di una canzone che già si possiede su CD o di un brano non più in commercio, per esempio), ma per la legge passata e attuale sono irrilevanti. Se un file è protetto da vincoli di distribuzione, distribuirlo senza autorizzazione era e rimane comunque una violazione delle leggi sul diritto d’autore. Dire che così fan tutti è una scusa che non regge. Punto e basta.
In altre parole, se siete assidui frequentatori di WinMX, eDonkey, Kazaa e di tutti gli altri circuiti peer-to-peer e ne scaricate i film di prima visione, è inutile che vi facciate venire improvvisamente la strizza perché avete letto del decreto Urbani: eravate nell’illegalità anche prima. È meglio che ve ne rendiate conto e prendiate le decisioni del caso.
Per contro, va chiarita una cosa che forse non è ben compresa dai bacucchi di tutto il mondo che ogni tanto si mettono in testa di legiferare a proposito di Internet: i circuiti di scambio non sono di per sé illegali. Tutto dipende da come li si usa.
Se scambiate un film o un brano soggetto a vincoli di distribuzione, state usando il circuito per commettere una violazione del diritto d’autore. Se invece scambiate le vostre foto, i vostri video autoprodotti o la vostra musica composta nello scantinato, siete nella più perfetta legalità, perché siete voi i detentori del relativo diritto d’autore e potete disporne come più vi pare. Usare Bittorrent per scaricare una distribuzione di Linux, come fa Mandrake.org, è un diritto legalmente inattaccabile.
Anche scaricare i trailer dei film è assolutamente lecito, e lo sarà anche scaricare le future canzoni di George Michael, se il cantante manterrà la promessa di concedere la libera distribuzione di tutti i suoi brani che comporrà dopo quelli dell’ultimo album “tradizionale”. Gli usi legali del peer to peer ci sono eccome, anche se attualmente non sono certo preponderanti. Chiunque dica “P2P uguale pirateria” o è un incompetente, o mente sapendo di mentire.
Purtroppo anche la terminologia del settore contribuisce a offuscare i veri termini del problema. Si parla spesso di “opere protette dal diritto d’autore” (come fa il decreto Urbani), come se l’espressione fosse sinonimo di “opera che non si può distribuire liberamente”. Questo è profondamente falso. Anche le opere liberamente distribuibili sono protette dal diritto d’autore. Il diritto d’autore consente all’autore di porre vincoli alla distribuzione della propria opera, ma non lo obbliga.
L’attuale modello commerciale discografico e cinematografico (e in misura minore quello letterario) ci ha abituati a pensare che diritto d’autore e vincolo siano gemelli siamesi, ma non è affatto così. Un autore che consenta la libera circolazione della propria opera non intacca assolutamente il proprio diritto legale a essere riconosciuto come padre dell’opera e a trarne esclusivo beneficio. Per questo preferisco parlare di opera vincolata per indicare un’opera che non è liberamente distribuibile.
Gendarmi bendati
Il fatto che i circuiti di scambio si prestino a usi perfettamente legali fa precipitare nel ridicolo l’altra apparente novità del decreto Urbani: l’obbligo, per i provider e per i fornitori di servizi, di segnalare alle autorità di polizia chi viola il diritto d’autore usando il P2P o siti Web (e a dire il vero il decreto sembra pensare più al Web che al P2P). È una novità soltanto apparente, in quanto le leggi precedenti già prevedevano l’obbligo di comunicazione, come notato dall’ottima analisi di Andrea Rossato. La novità, se c’è, sta forse nella specifica sanzione amministrativa da 50.000 a 250.000 euro prevista per chi non rispetta l’obbligo. Come vedete, sono in realtà i provider a rischiare grosso, non gli utenti P2P.
Il ridicolo deriva dal dubbio che sta tormentando in questi giorni i provider: di preciso come dovrebbero rispettare quest’obbligo? Devono pattugliare attivamente la Rete, o limitarsi a segnalare i casi di violazione in cui si imbattono? Non si sa. E in entrambi i casi, come fanno a verificare che si tratti davvero di violazione? Per sapere se un utente sta violando il diritto d’autore in un circuito P2P, occorre intercettare il suo traffico di dati, ma già questo pone seri problemi di legalità, perché la riservatezza della comunicazione telematica è tutelata dalla legge.
Certo un provider o fornitore di servizi potrebbe mettersi passivamente in ascolto nei circuiti di scambio e trovare qualcuno che offre materiale non liberamente distribuibile. Ma per non rischiare di denunciare un innocente, dovrebbe sincerarsi che il materiale offerto sia davvero vincolato e non sia, per esempio, il file di un burlone che ha registrato i propri strimpellamenti e li ha intitolati “Anymore – Vasco Rossi” o si è messo un lenzuolo in testa e ha girato e messo online un video intitolato Ghost.
Anche dopo aver superato questo scoglio, resta il problema non trascurabile di associare il nickname dell’utente con una persona. È inutile denunciare l’utente pincopalla732 alle autorità di polizia, se non si sa a chi corrisponde. Il provider può risalire facilmente all’indirizzo IP di pincopalla732, ma qui si ferma: solo le autorità di polizia possono associare un indirizzo IP, magari dinamico, all’utente al quale era assegnato in un dato momento, seguendo un iter non certo semplice.
Insomma, il provider, trasformato in improvvisato gendarme senza stipendio, può al massimo presentare alle autorità di polizia una lista di nickname e di indirizzi IP. Il fatto è che la lista, come ben sa chiunque apra anche una singola schermata di WinMX, rischia di essere talmente lunga e continuamente aggiornata da rendere impraticabile ogni azione. Come possono reagire le autorità di polizia se ricevono tutti i giorni dieci o ventimila segnalazioni di nickname di scambiatori illegali? Da chi cominciano le indagini? Che si fa, si tira a sorte?
Farfalle e stalloni
Oltretutto sabotare un sistema di sorveglianza di questo genere è banale, come ben sanno quelli della RIAA, che tentarono di bloccare Napster imponendo un filtro che conteneva i titoli delle canzoni: gli utenti le rinominarono usando l’alfabeto farfallino. È altrettanto banale saturare i circuiti di file i cui nomi corrispondono a titoli di film (il decreto Urbani, curiosamente, tutela soltanto le “opere cinematografiche e assimilate”) ma contengono tutt’altro, magari un filmetto amatoriale: il gendarme dovrà scaricarsi tutto il file e guardarselo per intero, perché potrebbe contenere spezzoni di opere vincolate. Se poi il filmetto è a luci rosse o mostra due ore di traffico autostradale, tedio e imbarazzo avranno presto la meglio anche sul tenente Sheridan più ligio.
Ciliegina sulla torta, queste leggi di tutela del diritto d’autore si estendono a tutti i film. Compresi, dunque, i film porno, ai quali è obiettivamente difficile abbinare il concetto di proprietà intellettuale, ma che sono comunque “opere cinematografiche e assimilate”. I diritti violati dei pornografi potranno finalmente essere salvaguardati con tutto il rigore della legge. Forse non era proprio questo che il ministro aveva in mente, ma vedo già i titoli: “Decreto Urbani salva Cicciolina. E il suo cavallo”.
Prima che pensiate che la direttiva europea sulla proprietà intellettuale recentemente approvata sia migliore del decreto Urbani, va chiarito subito un facile equivoco: è vero, diversamente dal decreto italiano la direttiva europea prevede di punire soltanto chi diffonde “su scala commerciale” ma non chi scarica. Tuttavia basta considerare un momento il modo in cui funzionano tutti i circuiti P2P per rendersi conto che chi scarica diventa automaticamente (salvo apposite contromisure) colpevole di diffusione: perché il circuito funzioni, ogni downloader deve essere anche uploader. E naturalmente un file messo a disposizione da un utente su Kazaa, per esempio, può essere scaricato da decine di migliaia di altri utenti, configurando sicuramente la “scala commerciale”.
Parliamoci chiaro. Nonostante tutti questi bei tentativi di vietare per legge al vento di soffiare, gli utenti dei circuiti P2P che scambiano file vincolati sono troppi per poterli rincorrere tutti. Se ne potrà forse bastonare qualcuno per educarne altri, come è già stato fatto con patetici effetti boomerang negli USA, ma il fenomeno non cesserà di certo: semplicemente si evolverà come ha già fatto in passato, introducendo altre forme di scambio non intercettabili, per esempio creando reti di utenti che scambiano file cifrati e lo fanno soltanto con altri utenti la cui identità è loro nota, in modo da tener fuori gli spioni. Una sorta di grande circolo privato, ai quali si accede soltanto su invito, come già si fa con i circuiti di amici come Orkut.
Comma profondo
La mia unica preoccupazione è che questo decreto, come già è avvenuto per esempio con la legge sull’editoria del 2001, si accumuli nel repertorio delle leggi inapplicate e da tutti violate, ma comunque applicabili all’occorrenza ai personaggi sgraditi.
C’è, in particolare, un comma che mi inquieta non poco, perché contiene una disposizione che in sostanza rischia di imbavagliare il mondo informatico. Il comma 4 recita infatti che “chiunque pone in essere iniziative dirette a promuovere o ad incentivare la diffusione delle condotte di cui al comma 3”, vale a dire la diffusione o fruizione telematica di film o telefilm vincolati, “è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 2000 e con le sanzioni accessorie previste al medesimo comma”.
In altre parole, chiunque scriva un articolo che spiega come usare un circuito P2P o masterizzare un brano musicale rischia di incappare in questa sanzione. Persino documenti apparentemente innocui come le istruzioni per creare una rete privata virtuale (VPN), come avviene nelle comunicazioni intra- e interaziendali, possono essere visti come “sovversivi”: spiegano come creare una rete che può essere usata per scambiare file vincolati. Il paragrafo di questo stesso articolo in cui descrivo sommariamente le possibili tecniche di elusione della sorveglianza dei provider, per dimostrare quanto sia futile l’approccio del decreto Urbani e quindi incentivare il legislatore a far di meglio, può essere interpretato invece come promozione o incentivazione di condotte illegali. Specialmente se pesto i calli a qualcuno.
Spiace per i dinosauri che non se ne sono resi conto, ma il mondo è cambiato. Il modello commerciale disco-cinematografico aveva senso quando non esistevano i personal computer e Internet e quindi era relativamente facile controllare la duplicazione delle opere, e oltretutto la duplicazione aveva un costo. Ora che esistono, ora che duplicare non costa più nulla, insomma ora che il genio è scappato dalla lampada e non c’è modo di ricacciarlo dentro, quel modello non ha più senso, e chiunque si ostini a difenderlo rischia di fare la figura ridicola di paladino della corporazione dei maniscalchi atterriti dall’avvento dell’automobile. E di estinguersi insieme ai maniscalchi, se non si evolve.
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