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Dati personali, il petrolio dell’economia digitale

12 Ottobre 2011

Dati personali, il petrolio dell’economia digitale

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Benzina per il web sociale, ricchezza per chi ci mette le mani sopra. Tra privacy e publicy, il dibattito sulle posture sociali dei cittadini digitali non è mai stato così movimentato

Vogliono le nostre identità, sapere cosa pensiamo, sogniamo, desideriamo. Chi sono i nostri amici, quali i nemici, e che genere di relazioni ci legano a loro. Hanno bisogno di seguire ogni nostro movimento, documentarlo, catalogarlo e analizzarlo. Come nello splendido The Matrix, dove software senzienti sottomettono e sfruttano esseri umani trasformati in batterie viventi, così i giganti della rete (quelli con la G maiuscola, per intenderci) ci intrappolano con ogni genere di servizio “gratuito” e si nutrono dello “storytelling” delle nostre vite. O meglio, della sua puntuale rappresentazione digitale in forma di dati personali, mietuti e raccolti come fossero messi con strumenti sempre nuovi e imprevedibili.

Prezzo da pagare

Un incubo? Non necessariamente. Forse è il prezzo da pagare per vivere nella società dell’informazione e forse viviamo davvero nell’era di quella che Stowe Boyd ha definito Publicy, dove contrariamente al passato tutto è pubblico di default e semmai bisogna decidere cosa debba essere privato. Del resto Mark Zuckerberg, giovane fondatore di Facebook, lo va dicendo ormai da anni che «il costume è cambiato e oggi le persone che si connettono online per interagire tra loro preferiscono condividere piuttosto che nascondere». Peccato che il ragazzo pontifichi sull’argomento mentre siede comodamente su un colossale conflitto di interessi.

La verità, infatti, è che meno viene nascosto, protetto, “lucchettato” in rete e più c’è da analizzare, indicizzare, associare a pubblicità mirate, profilare, rivendere a terzi. Le applicazioni sono infinite e molto remunerative. E sempre di più sono gli strumenti per raccogliere questa preziosa materia prima. Prendiamo l’ultima creatura di Amazon, il Kindle Fire: come fa notare Marshal Sponder, data analyst autore del blog WebMetricsGuru e ora del bel libro Social Media Analytics, «grazie al Silk Browser Amazon avrà accesso a una quantità di dati che non ha paragoni nel mercato». Ciò dipende dal fatto che, per funzionare, il browser del Kindle Fire si appoggia sul cloud computing dell’azienda americana di fatto filtrando (seppur in maniera anonima) ogni movimento online dei suoi utenti. Dove vanno, per quanto tempo, quante volte e così via. «La privacy di questi tempi è un concetto che sta lentamente svanendo», aggiunge Sponder. E ha ragione.

Motore

Per alcuni è una straordinaria opportunità di inventare nuovi servizi, di studiare soluzioni a problemi complessi, di creare valore. Per altri è l’alba di una nuova schiavitù:  «L’enorme massa di dati personali che ogni giorno gli utenti riversano in Rete è il nuovo petrolio, il motore della nuova economia». A parlare è Andrew Keen, imprenditore e scrittore noto per le sue posizioni fortemente critiche (per usare un eufemismo) nei confronti della rete. E che aggiunge: «Ogni singola startup o azienda affermata in questa new economy, da LinkedIn a Facebook, da Foursquare a Twitter, dipende direttamente da noi, e dai dati che decidiamo volontariamente di condividere. Dati su intorno a cui si costruiscono servizi, ma che vengono anche e soprattutto venduti agli advertiser».

Secondo Keen, insomma, siamo in un nuovo «Wild West tecnologico», dove la nostra privacy – e con essa le nostre vite – è in vendita al miglior offerente. Per questo è necessario che la massa crescente di utenti della Rete acquisisca consapevolezza rispetto al valore dei propri dati, ne recuperi il controllo con l’aiuto dei «governi, che devono farsi avanti e iniziare a regolare il business, a imporre dei limiti». Un compito non semplice – specie considerando che le persone condividono i propri dati personali volontariamente – e per il quale lo scrittore anglo-americano propone una sua personale (e controversa) soluzione: «La tecnologia dovrà aiutarci a dimenticare». sostiene, «dandoci modo di rendere alcuni dati deperibili, perché ricordare tutto è disumano. In questo mondo di visibilità e trasparenza radicale, la risorsa che scarseggia è la privacy. Per questo abbiamo bisogno di regole e di servizi, anche commerciali, che consentano di difenderla».

Aggregazioni

Euro Beinat, italiano, è ingegnere elettronico e professore presso l’Università di Salisburgo. Beinat si occupa di Internet of things e di Collective Sensing.  In parole semplici, si occupa di «studiare e comprendere come l’enorme quantità di tracce digitali che ci lasciamo alle spalle in rete possano essere aggregate in maniera anonima, analizzate e strutturate per ricostruire, comprendere e infine prevedere le dinamiche di vasti sistemi complessi». Sistemi come intere città, tanto per capirci. Un uso virtuoso dei dati personali focalizzato sul «misurare quante persone sono in un luogo e come si muovono. Simili rilevazioni», spiega infatti Beinat, «consentono ad esempio di garantire la sicurezza della gente prevedendone i movimenti durante grandi assembramenti e organizzando di conseguenza assistenza, servizi, vie d’acceso e di fuga». Lo stesso tipo di rilevazione ha interessanti applicazioni in ambito business, come ad esempio quando si deve stimare il ritorno d’investimento nel turismo: «Se noi aggreghiamo informazioni pubbliche e anonime, tipo il numero di persone che vanno a Roma e i luoghi che frequentano, seguendo quali percorsi in una dato lasso di tempo, allora abbiamo criteri di giudizio completamente diversi per definire il valore degli investimenti fatti, e tutto senza bisogno di violare la privacy del singolo».

Meno ottimistica a riguardo è invece la visione di Johan Staël von Holstein. Secondo l’imprenditore e internet guru svedese, l’enorme valutazione economica di Facebook è la prova provata di quale reale valore abbiano i dati personali degli utenti in rete per le aziende. Il problema, spiega,  è «che il business punta a sfruttare questi dati in modi che a noi non portano nessun beneficio, ad esempio bombardandoci con advertising che non vogliamo ricevere, generando sempre più information overload». Non possiamo fidarci di queste aziende, ammonisce von Holstein, «così come non ti puoi fidare ciecamente di tua moglie, del tuo migliore amico e a volte persino di te stesso. Ecco perché ognuno di noi nasconde e deve nascondere dei segreti, a volte persino a se stesso. Ed ecco infine perché, conclude, abbiamo bisogno di poter controllare le informazioni che ci riguardano ed uscire da questa nuova “schiavitù digitale” della quale siamo preda».

Ecosistemi

Qualcuno in realtà ci ha già pensato. Come racconta Fabio Sergio, design and user experience strategist per Frog, già da un anno e mezzo il World Economic Forum sta lavorando ad un programma chiamato Rethinking Personal Data, il cui obiettivo è proprio capire come sia possibile raccogliere, aggregare e mettere a frutto i dati personali delle persone senza violarne la privacy e anzi dando a governi, aziende e ai cittadini stessi  l’opportunità di creare valore. «Oggi la vera sfida», sostiene Sergio, «è creare ecosistemi aperti basati su regole di condotta (o «trust networks», come li definisce il WEF) cui le aziende devono aderire per garantire il trattamento dei dati personali nel rispetto delle necessità degli utenti».
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Insomma, il compito che ci si para di fronte è imponente: è necessario creare oggi il terreno fertile dove coltivare domani la nuova economia costruita intorno ai dati, anche perché «nei prossimi anni», spiega ancora Sergio, «vedremo un’esplosione di servizi e device come gli smartphone. Strumenti che, grazie ad appositi sensori, produrranno e immetteranno in Rete ancora più informazioni che ci riguardano, dalla semplice geolocalizzazione ai dati biometrici con cui tenere sotto controllo la salute dei soggetti a rischio».  Quello che vediamo emergere oggi e un mondo dove ogni cosa si appresta a essere connessa, dove oggetti “stupidi” messi in relazione attraverso un network producono dati che consentono di prendere decisioni intelligenti.

Automaticamente

Dobbiamo quindi essere pronti a gestire la nostra identità in un ambiente dove, come profetizzato da Tim O’Reilly già nel 2008, «la maggior parte dei dati che ci riguardano non sarà inserita in Rete attraverso una tastiera». Un mondo iperconnesso nel quale una parte importante della nostra storia personale sarà raccontata online e quasi automaticamente, attraverso device che ci seguono ovunque. E ovunque, la scommessa del futuro sarà rinunciare alla privacy riuscendo a controllare saldamente la propria publicy.

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