Open data, trasparenza, volontariato, innovazione attraverso gli strumenti del web, approccio open: tutti elementi di Crisis Commons, un network no profit nato nel 2009 per connettere idee e persone che si occupano di crisi umanitarie e cooperazione internazionale. Un approccio che ha mostrato tutta la sua efficacia durante la fase di gestione della crisi seguita al terremoto che ha colpito Haiti il 12 gennaio 2010, quando migliaia di volontari hanno aiutato le istituzioni internazionali e umanitarie a gestire l’informazione sul territorio al meglio, in modo da facilitare il lavoro sul campo degli operatori evitando sprechi di energie e risorse preziose.
Il primo Camp
«L’idea di Crisis Commons mi è venuta a un barcamp di Washington DC», racconta Heather Blanchard, co-fondatrice del network. «All’epoca lavoravo per un’agenzia governativa che si occupava di gestire i soccorsi in caso di disastri naturali e sono andata quasi per caso al Transparency Camp. Parlando con diverse persone che ruotavano attorno alle tematiche che mi interessano è nata l’idea di organizzare un barcamp in cui invitare coloro che si occupano di open data e stanno dentro alle community tecnologiche di supporto al volontariato internazionale. L’idea era di cercare di sfruttare l’innovazione che veniva da questi ambiti nella gestione delle crisi». Il primo Crisis Camp si è svolto nella primavera del 2009 sempre nella capitale federale americana e ha catalizzato molto più interesse di quanto ci si poteva aspettare. Un successo che si è tradotto in gruppi di tante altre città che hanno manifestato la voglia di organizzare eventi simili, dentro e fuori dagli Stati Uniti. Oramai i Crisis Camp si organizzano in diverse parti del mondo e recentemente è accaduto anche a Parigi, dove Crisis Commons ha raccolto i volontari e i tecnologi francesi per confrontare le esperienze sulle due sponde dell’Atlantico, e dove abbiamo incontrato Heather Blanchard.
Le scosse e il disastro umanitario di Haiti nel gennaio del 2010 hanno rappresentato il primo banco di prova per Crisis Commons: non si trattava più solamente di progettare e discutere di come aiutare un paese in difficoltà, ma di gestire una vera e propria crisi in un paese con forti difficoltà economiche, tecnologiche e sanitarie, aggravate in modo drammatico dal sisma. «Quando abbiamo saputo del terremoto», racconta la Blanchard, «ci siamo chiesti in che modo potevamo aiutare: era il momento di attivare la rete che ruotava attorno a Crisis Commons». Nemmeno 48 ore dopo la notizia delle scosse, Crisis Commons è riuscita ad attivare diverse unità di volontari per coordinare le informazioni che riguardavano il territorio e farle pervenire a chi operava sul campo, organizzandole come dei barcamp. Tutto è stato realizzato su base volontaria e con un’organizzazione dal basso, a volte parzialmente anarchica, ma focalizzata su uno scopo comune e coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone. «Nelle prime quindici settimane dopo il terremoto c’erano sessantacinque eventi attivi in tutto il mondo che coinvolgevano circa tremila persone. É stato incredibile!».
Crowdsourcing
Ma che cosa hanno fatto nello specifico tutti questi volontari? Quando un territorio è colpito da un disastro come un terremoto, è importante sapere quali strade sono percorribili, quali punti del territorio stanno soffrendo per una situazione particolare, dove è più urgente far pervenire aiuti sanitari, quali informazioni che si avevano prima dell’evento sono ancora affidabili e quali, invece, non sono più da considerare tali. Tutto questo significa che quasi sempre le forze delle istituzioni locali, ma anche quelle delle organizzazioni che portano i soccorsi, non sono sufficienti a farsi un’idea chiara della situazione. L’idea di Crisis Commons è quella di utilizzare il crowdsourcing, chiedendo direttamente a chi è sul territorio – perché è, in questo caso, haitiano o perché sta lavorando per gestire l’emergenza – di far confluire tutte le informazioni su una piattaforma aperta a tutti che geolocalizzi tutte queste informazioni. Tra i volontari c’erano, quindi, studenti universitari che traducevano gli sms che arrivavano dall’isola, costruendo così un database in lingua inglese accessibile a tutte le organizzazioni di qualunque paese. C’erano i gruppi di Ushaidi che hanno vagliato e confrontato informazioni sullo stato delle strade e degli edifici. C’erano i volontari che filtravano e raggruppavano le informazioni che passavano dai social network per non perderne anche il più piccolo frammento.
Ad Haiti si è lavorato molto, ma non esclusivamente, sulla piattaforma di Open Street Map, che oggi presenta una dettaglio delle strade di tutto il paese caraibico molto maggiore di quanto faccia Google Maps. Basta guardare la pagina dedicata ad Haiti per vedere il dettaglio delle informazioni per la capitale Port Au Prince. Sono indicati non solo gli isolati, ma i singoli edifici e inoltre include informazioni preziose per chi deve operare sul campo, come dove trovare le strutture per la gestione dell’acqua, quelle sanitarie e, col tempo, anche i campi dei rifugiati. La lezioni di Haiti è stata determinante per capire come procedere per lo sviluppo del network. «Dopo il terremoto, quando la crisi peggiore era passata, abbiamo scritto un report», spiega Heather Blanchard, «nel quale abbiamo messo nero su bianco quello che abbiamo imparato dall’esperienza diretta. Una delle cose più importanti che abbiamo capito è che c’era bisogno di una qualche entità che lavorasse in casi di crisi come questo. Questo è il motivo principale per cui è importante che si continuino a fare i Crisis Camp in sempre più città del mondo: significa mettere in comune tecnologie, tools, esperienze, know-how e una grande quantità di volontari che può essere mobilitata in modo coordinato in caso di necessità».
Chi sostiene il network
Un sostegno importante è arrivato anche dalla Banca Mondiale che ha deciso di finanziare l’attività di Crisis Commons nonostante non abbia una vera e propria personalità giuridica. Una situazione che sul suolo europeo appare meno percorribile. Durante il Crisis Camp parigino, infatti, si è cercato di capire in che modo una pratica come quella che ha dimostrato tutta la sua efficacia contribuendo a salvare vite umane ad Haiti e ha messo a disposizione di tutti informazioni di qualità possa essere presentata anche alle istituzioni europee per sviluppare il network anche nel Vecchio Continente. Uno degli aspetti chiave emersi dal camp di Parigi è che la strada percorribile è quella di coinvolgere piccole realtà locali che si occupano di gestire il territorio. Sul locale è più facile che un piccolo sforzo di volontari e amministratori locali ben disposti possa dare frutti efficaci che si possono presentare come buone pratiche e modelli di efficienza.
È il caso di un piccolo progetto di Elena Rapisardi, content manager freelance che opera nel pisano, dove ha convinto la protezione civile e le amministrazioni locali della Bassa Val di Cecina e delle Colline Marittime a mettere in piedi una piattaforma per condividere i dati di protezione civile a livello intercomunale. Un approccio, quello dal basso verso l’alto, che non è nuovo, ma come sempre in Italia rappresenta uno strappo piuttosto che la norma. Anche Elena Rapisardi era presente al Camp di Parigi e nel suo intervento ha confermato con uno slogan (The focus is “preparedness”) l’idea di Heather Blanchard: l’unico modo per affrontare le crisi, grandi o piccole che siano, è essere preparati. Il che significa che è necessario lavorare in tempi normali sulla gestione del rischio e la preparazione di volontari e operatori, con un appuntamento periodico nei Crisis Camp e lavorando a stretto contatto con le amministrazioni pubbliche laddove è possibile. La speranza è che poco a poco anche la politica, smossa dall’innovazione dei volontari dei vari network si adegui a pratiche che hanno già mostrato di essere mature a tutti gli effetti.