Anatomia di una crisi
Ai cultori del cinema horror la scena è fin troppo familiare: la scream queen è in casa da sola in piena notte pur sapendo che c’è un killer che gira a piede libero per il quartiere; il killer irrompe improvvisamente alle sue spalle brandendo un coltello/un machete/una bolletta del gas; la scream queen tenta di scappare a) con il tacco dodici verso la soffitta, oppure b) con le infradito verso il bosco e, in entrambi i casi, inciampa rovinosamente su se stessa; il killer la raggiunge dopo essere a sua volta precipitato in cantina o dentro un fosso ed essere rimasto stordito per mezz’ora; la scream queen cerca di disorientare il killer intavolando un’arringa sul complesso di Edipo dal diciannovesimo secolo ai giorni nostri; il killer ripercorre i suoi traumi infantili in fila per tre col resto di due e le rivela di essere il suo gemello siamese ripudiato alla nascita e assetato di vendetta; la scream queen prova a chiamare la Polizia nell’unico metro quadrato di pianeta in cui non prendono nemmeno i localizzatori della NASA e infine, rassegnatasi al peggio, capitola brutalmente sperando di tornare nel sequel.
Nel frattempo, il pubblico, barile di popcorn alla mano, si pone una e una sola domanda: perché mai la scream queen si ostina a fare ogni volta le scelte sbagliate, ignorando i rischi che esse comportano e illudendosi di riuscire sempre miracolosamente a salvarsi?
Che cosa c’è dietro una crisi
Fuor di metafora, con sufficiente approssimazione, quello che avviene nel cinema horror è quello che avviene ogni giorno anche nel mondo reale di fronte alle minacce che girano a piede libero per il Web.
Quante volte, nel corso degli anni, siamo stati testimoni di episodi in cui un’azienda o un personaggio pubblico, pur sapendo di trovarsi in condizioni di pericolo, ha preso decisioni avventate (isolarsi, dileguarsi, confondere le acque, invocare soccorsi tardivi o ritenersi immortale) che hanno trasformato una potenziale emergenza in un danno fatale?
Spesso, infatti, a provocare una crisi online non è tanto il trigger, l’agente scatenante di partenza, quanto il modo con cui non lo si previene o non lo si contrasta. Soprattutto quando parliamo di crisi reputazionali o correlate, direttamente o indirettamente, alla sfera della comunicazione di brand.
Vuoi per la sua fisiologica impalpabilità vuoi per la sua patologica mutabilità, in questo senso, la Rete rappresenta oggi il terreno più fertile per lo scoppio di un conflitto. Perché se già non potevamo dormire sonni tranquilli in un’epoca nella quale il pericolo viaggiava sui media tradizionali (pensiamo alla campagna di boicottaggio contro Nestlé e il suo latte in polvere lanciata nel lontano 1977, il cui impatto globale grava ancora oggi sul percepito che molte persone hanno della marca), dacché ha iniziato a viaggiare sui media digitali si sono moltiplicati, di pari passo con i canali e con gli interlocutori a cui ci rapportiamo, sia i fattori di rischio sia le vulnerabilità che consentono loro di attecchire.
Eppure, a ben vedere, per quello che di prassi è l’iter che una minaccia deve attraversare per scatenare prima una crisi e poi un danno, sembrerebbero essere molte di più le strade che permettono di scongiurarla rispetto all’unica che porta dritta al punto di ritorno.
In termini semantici, quando parliamo di conflitto online, definiamo:
- vulnerabilità un qualunque gap strutturale, relazionale o gestionale che affligge un’azienda/un brand/un prodotto/un servizio e/o un singolo personaggio pubblico o politico esponendolo a una possibile situazione di pericolo su una o più piattaforme web (social media, blog, siti di news, siti di recensioni, forum eccetera);
- minaccia un qualunque soggetto, atto o processo che ha la facoltà di provocare all’azienda/al brand/al prodotto/al servizio/al singolo personaggio pubblico o politico un danno materiale, morale e/o di immagine;
- rischio la probabilità che la minaccia si traduca concretamente in un problema e/o in una crisi (e, di conseguenza, in un danno);
- problema un qualunque stato di tensione collettiva su una o più piattaforme web generato dalla mancata prevenzione o correzione della minaccia;
- crisi la condizione di amplificazione estrema del problema, generata dalla sua mancata risoluzione, che provoca infine l’effettivo danno materiale, morale e/o di immagine.
Proviamo a fare un esempio che ci è, anche televisivamente, familiare: una cucina da incubo.
- Vulnerabilità: condizioni igieniche inadeguate e cibo non particolarmente appetibile.
- Minaccia: l’insoddisfazione dei clienti e le recensioni negative su Tripadvisor e sui social media.
- Danno potenziale: perdita d’immagine, crollo dei profitti e fallimento.
- Rischio: elevato.
Di fronte alle prime avvisaglie di malcontento (piatti che tornano indietro, lamentele sulla biancheria o sulla toilette, rifiuto di pagare una o più portate eccetera) il proprietario può decidere se prevenire direttamente la minaccia (ristrutturando il locale, assumendo un nuovo chef, modificando il menu, utilizzando materie prime migliori…) oppure pensare di lasciare tutto così com’è (A questo prezzo cosa pretendi?, I miei spaghetti sono i migliori della città, Se vuoi la cucina da fighetti vai da un’altra parte e via dicendo).
Nel primo caso, è facile supporre che il malcontento svanisca e il ristorante cominci a godere di ottima salute e reputazione.
Nel secondo, è facile supporre che il rischio di qualcosa di più grave arrivi a prendere forma.
A questo punto, il proprietario può nuovamente decidere se adottare misure correttive in corsa (ingaggiare un’impresa di pulizia, ottimizzare il menu, segmentare il pubblico o altro) oppure continuare a lasciare tutto così com’è (Non ho tempo, Faccio questo lavoro da vent’anni e nessuno mi ha mai detto niente, Faccio questo lavoro da vent’anni e non prendo lezioni da chi non l’ha mai fatto).
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Nel primo caso, è facile supporre che l’allarme rientri e il ristorante cominci a trovare il suo target e il suo equilibrio.
Nel secondo, è facile supporre che si materializzi il problema: decine di feedback da una stella e/o di messaggi denigratori pubblicati con continuità sistematica e toni sempre più accesi su qualsiasi canale digitale disponibile.
A questo punto, il proprietario può nuovamente decidere se trovare una soluzione (che, oltre alle ipotesi precedenti, contempla adesso anche l’obbligo di rispondere ai commenti) oppure perseverare nel lasciare tutto così com’è (o, peggio ancora, trovare una soluzione sbagliata: attaccare pubblicamente gli utenti, abbassare i prezzi, promuovere offerte di fidelizzazione per evitare la fuga di clienti eccetera).
Nel primo caso, pur se con un investimento molto più consistente rispetto a quello iniziale, è facile supporre che il problema si risani e che, col tempo, il ristorante si riabiliti agli occhi e al palato delle persone.
Nel secondo, è facile supporre che avvenga il peggio: feedback da una stella che schizzano in orbita, influencer che vanno a mangiare in quel ristorante al solo scopo di parlarne male, stampa locale che cavalca il fenomeno arricchendolo di aneddoti sensazionalistici più o meno autentici (il passato oscuro del proprietario, le misteriose patologie occorse a un gruppo di turisti che avevano ordinato una carbonara, gli strani movimenti notturni denunciati dagli abitanti del quartiere e avanti così).
Boom
A questo punto, al proprietario non rimane altro da fare se non affrontare la crisi di petto e attuare una strategia di intervento per salvare il salvabile.
Diversamente, il destino farà il suo corso e il danno diventerà irreversibile, costringendo il ristorante a chiudere.
L’insoddisfazione dei consumatori (che, beninteso: può anche essere illegittima, ma va comunque prevenuta o sanata) non è che una delle possibili minacce di conflitto online, che generalmente si dividono in tre macrocategorie:
- quelle che riconducono a fattori naturali, accidentali o casuali (un nubifragio, un guasto improvviso, un difetto di fabbrica ecc.);
- quelle che riconducono a fattori critici intrinseci (un customer care inefficiente, un ambiente di lavoro tossico, un messaggio pubblicitario equivoco ecc.);
- quelle che riconducono a fattori critici estrinseci (l’informazione manipolata di un blog, la dietrologia di una community complottista, lo spam seriale di un troll e così via).
Queste ultime, in particolare, si distinguono dalle prime due perché sottintendono sempre un deliberato proposito, se non il preciso obiettivo, che il danno si compia. Il che non le rende necessariamente più gravi delle altre, ma aggiunge al contesto di riferimento una variabile strategica sostanziale: l’intenzione. Ovvero la volontà di colpire un bersaglio con una minaccia creata ad hoc per scardinarne le difese immunitarie, cioè le vulnerabilità.
Che, a loro volta, si dividono in tre macrocategorie.
- Strutturali: l’azienda/il brand/il personaggio pubblico o politico ha vizi congeniti che generano gap nei suoi prodotti, nei suoi servizi o nei suoi asset.
- Relazionali: l’azienda/il brand/il personaggio pubblico o politico non ha un rapporto positivo con i suoi dipendenti, i suoi stakeholder o la sua audience.
- Gestionali: l’azienda/il brand/il personaggio pubblico o politico non dispone di risorse tecniche e/o umane adeguate per affrontare la minaccia.
Nell’esempio del nostro ristorante, condizioni igieniche inadeguate e cibo non appetibile sono vulnerabilità strutturali; l’atteggiamento di chiusura alle critiche è una vulnerabilità relazionale; la mancanza di tempo o l’incapacità di trovare una soluzione al problema è una vulnerabilità gestionale.
Altre vulnerabilità strutturali particolarmente comuni sono una scarsa trasparenza della supply chain, l’impiego di manodopera a basso costo, una modesta conoscenza dei mezzi e dei linguaggi di comunicazione, l’assenza di manutenzione, l’insufficienza di personale o una politica di prezzo troppo aggressiva. Altre vulnerabilità relazionali sono, invece, un clima di lavoro malsano e non collaborativo, la mancanza di partnership commerciali e/o istituzionali di valore, un’avversione latente verso la leadership o la carenza di attività di networking e di engagement. Altre vulnerabilità gestionali, infine, sono l’assenza di una policy di crisis management, l’eccesso di burocrazia, un flusso operativo rigido e poco flessibile, un customer care non opportunamente formato o l’inesperienza del team di PR.
Il relativo quoziente di rischio, pertanto, può essere lieve (se la vulnerabilità è superficiale e la minaccia è pretestuosa), moderato (se la vulnerabilità è acuta e la minaccia è ordinaria) o elevato (se la vulnerabilità è cronica e la minaccia è patologica).
Nel momento in cui una crisi deflagra formalmente e, se non viene gestita nel modo corretto, il danno si compie, gli effetti avversi che ne derivano possono essere:
- materiali: tutte le ricadute di natura fisica e quantitativa (il calo delle vendite e del fatturato, l’emorragia di clienti, la diminuzione delle quote di mercato, il blocco dei finanziamenti e delle sponsorizzazioni, la contrazione della produttività, l’arresto della crescita, l’aumento del turnover eccetera);
- morali: tutte le ricadute di natura psicologica ed emotiva (il picco di stress, il deterioramento del clima interno, la sfiducia verso il management e così via);
- di immagine: tutte le ricadute di natura reputazionale e qualitativa (la perdita di valore percepito, la diffusione di pregiudizi, l’impennata di sentiment negativo, la fuga di informazioni riservate, la manipolazione dell’opinione pubblica…).
In tutto questo, la buona notizia è che non sempre (anzi, quasi mai) i danni generati da una crisi sono irreversibili. Nella maggior parte delle situazioni, l’impatto è temporaneo e limitato nel tempo.
Ci sono poi situazioni in cui l’impatto è permanente o semipermanente ma non impedisce all’azienda/al brand/al personaggio pubblico o politico di continuare a portare avanti con successo il proprio business (è il caso di Nestlé che abbiamo anticipato, il cui percepito radicatosi a livello globale dalla fine degli anni Settanta torna ciclicamente a gettare ombre sul brand nonostante il gradimento e il consumo dei singoli prodotti non ne venga, di fatto, intaccato).
Molto più rare, fortunatamente, sono le situazioni in cui l’impatto si rivela fatale, ossia in cui impone la cessazione definitiva di ogni attività.
È sicuramente un danno a cui sono più esposte le piccole e medie imprese che hanno un contatto quotidiano con il pubblico di massa (i ristoranti, per l’appunto, oppure gli alberghi, le palestre, i centri benessere eccetera), le startup o le iniziative di microimprenditoria social nate soprattutto durante la pandemia (utenti che vendono manufatti di artigianato o si offrono di realizzare prodotti personalizzati su commissione), che soffrono di vulnerabilità gestionali acute o croniche e non sono abitualmente attrezzate per fare fronte a minacce come l’insoddisfazione dei clienti, gli hater o i sinistri di natura accidentale.
Riassumendo, quindi, la nostra configurazione preliminare di sistema si presenta articolata come nella prossima figura.
Intendiamoci: essere affetti da una (o più) vulnerabilità, poiché è quella la causa originaria di ogni crisi, è perfettamente fisiologico. Non è una colpa né un peccato.
Il peccato, semmai, è il senso di resistenza, quando non addirittura di ostilità, che tendiamo a provare verso il concetto di prevenzione.
È vero che, nel nostro immaginario, il principio secondo il quale prevenire è meglio che curare è diffuso e popolare sin dagli anni ottanta, ma è altrettanto vero che siamo portati ad associarlo al claim di un messaggio pubblicitario e non, come sarebbe più corretto, a un modello di comportamento virtuoso e universalmente valido. Prova ne sia che meno del 50 percento degli italiani al di sotto dei 24 anni usa il preservativo (fonte: Osservatorio giovani e sessualità Durex, 2021), che circa il 40 percento degli automobilisti viaggia con le cinture di sicurezza slacciate (fonte: Etsc, 2020) e che, in barba allo stesso spot che per primo ha lanciato lo slogan, più del 60 percento di noi va dal dentista meno di una volta all’anno e quasi il 70 percento non si lava neppure i denti tutti i giorni (fonte: Masterdent, 2018).
Per quanto lontano dalla nostra forma mentis, quindi, dobbiamo entrare nell’ottica che il momento migliore per affrontare una crisi è uno stato di quiete.
Quello in cui, di solito, ci regaliamo un bagno caldo, ci prepariamo un drink, ordiniamo del sushi da asporto, accendiamo la musica o la televisione, ci abbandoniamo sul divano e ci concediamo una serata relax tutta per noi in casa da soli.
Dimenticandoci, sciaguratamente, che nel frattempo un killer gira a piede libero per il quartiere.
Questo articolo richiama contenuti da Online Risk Management.
Immagine di apertura di Issy Bailey su Unsplash.