L’augmented reality è la mia più recente passione (e interesse professionale). Che ne sia interessato si vede, considerato anche il tono elegiaco dell’articolo che vi sto per rifilare. Ma portate pazienza, quando mi entusiasmo per qualcosa, mi allargo. Vi autorizzo a bastonarmi, se contribuite ad una discussione costruttiva.Però, ammettiamolo, quello dell’augmented reality è l’ennesimo maledetto pasticcio. Tanto per cominciare non è per niente facile darne una definizione che abbia un senso esplicito per chi già non la conosca ed è da evitare di spiegarla per esempi e basta, visto che la maggior parte degli esempi contemporanei ne danno un’interpretazione dannatamente riduttiva, almeno nel lungo termine. E poi è un pasticcio, il solito, capire come quella che parte come una tecnologia di bit ed elettroni possa trasformarsi non solo in una trovata creativa, ma anche in un oggetto che abbia un senso, una vita al di là della moda passeggera. E, dal mio punto di vista se permettete, trovarne un senso in un ottica di marketing e comunicazione.
Tentiamo una definizione
In termini accademici possiamo dire che l’idea è di sovraimporre strati di dati, informazioni sopra la realtà o sopra una sua visione attraverso un device tecnologico. Detta così, sfido qualunque neofita a capirci qualcosa e a immaginarsi cosa ce ne possiamo fare. Trovate un buon approfondimento sul blog di Mark Logan, se volete. Mettiamola così: proviamo a immaginarci un’immagine, una foto. O lo schermo del nostro supercellulare mentre inquadriamo un panorama o un oggetto. O la nostra webcam mentre inquadra la nostra bella faccia. E immaginiamoci che sopra questa visione della realtà come per magia compaia un qualcosa di generato artificialmente, che dia una “informazione” (in senso lato) aggiuntiva. Che aumenti quindi la realtà. Più o meno avete capito? Bene, ora qualche esempio pratico, ma non prima di aver dato un paio di caveat.
Se seguite un po’ il mondo della comunicazione digitale, vi sarete accorti che adesso l’augmented reality è di moda, anche se è già da un po’ che le tecnologie abilitanti sono disponibili. Come capita molto spesso in questo mondo che converge tra la tecnologia, la ricerca di buzz e la scarsità di idee forti, in larga misura l’augmented reality è stata usata per giochini creativi dalle gambe in fondo un po’ corte.
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Alla ricerca di un senso
Partiamo con il primo esempio: guardatevi qui sopra l’applicazione sviluppata da General Electric per comunicare la propria essenza di fornitore di energie verdi. Potete provare voi stessi. Wow Factor («uau, ma come hanno fatto?») che dura lo spazio di un mattino, premi creativi vinti, buzz. Bene, bravi. E poi? Trovata creativa, l’hanno fatto anche in Italia quelli di Martini Soda e poi altri. E altri lo faranno, ma è ora di andare avanti. Più strategico l’uso che ne ha fatto BMW per la Z4 con un senso più legato al concetto di «guida esilarante» che sta alla base della campagna integrata di comunicazione. Più estemporaneo, divertente (un pochino) e viralizzabile, la possibilità di trasformarsi in un Trasformer (su Geek Advertising, blog con cui collaboro, se vi interessa potete trovare un po’ di altri esempi che stiamo collezionando per piacere e per cultura). Tutte cose belle, che passata la moda e trovata un’altra strada giaceranno nella polvere.
E invece l’idea di aggiungere valore alla realtà ha un potenziale molto più ampio, sia in termini di formazione, sia in termini di applicazioni professionali (ad esempio nei processi di montaggio e assemblaggio), ma anche nel mio orticello, quello della comunicazione tecnointelligente o, come stiamo appunto iniziando a chiamarla, del geek advertising. E il gioco sta, come è nella natura del digitale e del 2.0, passando dalla moda all’utilità, dal “borrowed interest” all’interesse vero.
Il gioco del valore
Il potenziale vero di questo territorio di comunicazione tecnologica sta nel dare un senso più pratico e sensato agli strati che sovra-imponiamo alla realtà. Un primo ambito, su cui non voglio soffermarmi troppo perché è tutto sommato semplice, è quello dell’esplorazione virtuale, 3D, interattiva di un prodotto (o di un ambiente architettonico/storico, guardate che cosa ha combinato questo studente…
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Gli esempi, ancora embrionali ci sono già, diciamo che iniziamo a sapere come si potrebbe fare; come spesso capita il problema è nel metabolizzare questa nuova tecnologia da parte dei comunicatori e soprattutto da parte dei clienti. E in quest’area il problema più grosso è spesso definire le aspettative di quali possono essere i ritorni da un investimento di comunicazione in queste nuove forme. Un ritorno che non può essere misurato a tonnellate di contatti, ma che deve essere valutato in termini di conversazione, di percezione, di viralizzazione, di interazione con la marca (sempre, beninteso, con il fine ultimo di vendere prima o poi i prodotti, se no a che pro spendere per non avere ritorni né a breve né a lungo?).
Un paio di buoni esempi sono Wikitude (c’è un video esplicativo) e Layar; applicazioni che hanno il potenziale di dare un valore aggiunto per l’utente e di inserire una comunicazione commerciale in modo non gratuito o forzatamente interruptive; anzi, di portare il messaggio dell’azienda a livello di contributo, di servizio. Lavorando per di più su di un target che per l’interesse del momento o la sua localizzazione geografica si presenta come un possibile cliente “caldo” e più facile da convertire, quindi interessantissimo per qualsiasi venditore. Per non parlare di quello che capiterà quando convergeranno l’augmented reality, il riconoscimento della figura umane, il videogioco… o quando sarà realtà il “Sixth Sense” del MIT. Applicazioni però, pur se funzionali, un po’ poco “glamorous”, scarsine da parlarne con gli amici megadirettori marketing per farsene belli. Concrete ma poco affascinanti – e non è un caso che quando si parla di augmented reality c’è sempre qualcuno che tira in ballo Minority Report (mea culpa, io per primo), che in realtà racconta più che altro un modo di accedere a delle informazioni, un’interfaccia che uno strato di valore su una normale realtà.
Eppure, ne sono convinto, sarà proprio la comunicazione geek a ereditare ampie fasce di persone che ragionano e interagiscono in modo diverso da quelli che la storia della comunicazione tradizionale ci ha insegnato ad adottare come metro di paragone per tutto. Sensibili sì al colpo ad effetto, all’attacco di sorpresa, alla trovata che strappa un sorriso. Ma molto più sensibili, specialmente nei mondi digitali, alla concretezza, al senso compiuto, all’impegno dell’azienda non a intortarli ma a diventare partner. Dando un valore. Ad esempio, aumentando la loro realtà.