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Confessione di un terrorista (virtuale)

17 Dicembre 2009

Confessione di un terrorista (virtuale)

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Quando i tempi si fanno cupi anche i giochi più innocenti che si fanno tra gli amici dei social network diventano pesanti. E tutto comincia a odorare di piombo

Confesso. Ho lanciato addosso al collega di Apogeonline Roberto Venturini un modellino del Duomo. E in un impeto incontrollabile di violenza ne ho lanciato uno anche al nostro coordinatore editoriale Sergio Maistrello e a un certo altro numero di persone. Nella mia somma vigliaccheria non ho atteso di vedere se il proiettile avesse centrato l’obiettivo e neppure se qualcuno sanguinasse. Del resto la scorta di modellini del Duomo che ho lanciato non erano che proiettili virtuali. Ho aderito a una malefica applicazione su Facebook come si aderisce a un gruppo di fiancheggiatori del terrorismo e ho cominciato a mietere vittime. Ma sono un pessimo terrorista e dopo qualche lancio mi sono spaventato e ho abbandonato la lotta. Ora confesso. Ma non mi dissocio.

Dalla parte del torto

Non mi sono mai iscritto a gruppi inneggianti a una qualsiasi forma di violenza. Mi sento schierato, a volte più per un fattore genetico che per una reale convinzione. Ma, credo, da qualche parte bisogna pur stare. A volte mi riconosco in quella bellissima frase di Brecht che dice: «Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati». Adoro quel profumo di autoironia che sprigiona. Credo nel dialogo e in un certo modo di fare politica. Anche se dall’altra parte non sempre ho sempre ricevuto la stessa cortesia. Il presidente del consiglio mi ha chiamato «coglione»; il ministro Brunetta, augurandosi che andassi a «morire ammazzato», mi ha definito «pezzo di merda». Cioè non proprio a me personalmente. Non li ho incontrati per strada, non gli ho fregato il parcheggio e neanche la fidanzata. Si riferivano piuttosto ad un’area di simpatie, a una appartenenza, a un gruppo. Una sorta di nome collettivo. E allora confesso che mi fa ridere quando chiamano Brunetta «diversamente alto» anche se è un’offesa a tutti coloro che sono lontani dall’altezza media. Ma chi l’ha detto che l’altezza fisica sia un tratto di eccellenza? Del resto molti grandi uomini non erano alti. Hitler, Stalin, Charles Manson… Ok, confesso, ho fatto l’esempio sbagliato. Era ironia.

Ho insegnato a mia figlia che non si dicono le parolacce. Anche se qualcuna mi scappa. E lei mi rimprovera. Le ho insegnato che le parolacce non sono “cattive” in sé. Anzi che alcune, ad esempio “minchione” sono persino un retaggio culturale, una tradizione anche letteraria (parola usata da Verga). Le parolacce non vanno bene perché sono una inutile semplificazione. Se qualcuno ti fa un torto e gli dici “stronzo” non risolvi un bel niente. Magari è meglio confezionare una frase un po’ più lunga, affrontare la fatica di una conversazione e magari alla fine una soluzione più soddisfacente si trova. E poi, se una ogni tanto scappa, pazienza non sarà questo che chiuderà le porte al paradiso. È solo una parola.

Conflitti e sfumature

Eppure quando ho scagliato quel piccolo Duomo virtuale in quel campo di giochi che è Facebook mi sono sentito improvvisamente in colpa. Non era più uno di quegli scherzetti che si fanno con coloro che si considerano amici. Quelle cose di cui poi si ride insieme. Ho cominciato a pensare. Mi avrà visto qualcuno? Qualcuno mi starà imitando? I poveri Roberto e Sergio sono brava gente, gente con famiglia, e ora rischieranno la lapidazione con un minuscolo capolavoro gotico (genere che notoriamente amava le punte). Non è più uno scherzo.

Sta diventando tutto maledettamente importante. Tutto è vitale o mortale. Buonissimo o cattivissimo. Eppure da quando ho scoperto tutta quella gente sulla rete, nei forum, nei blog e anche su Facebook e Twitter mi aveva preso una sensazione di condivisione, di umanità che prima mi era stato difficile di provare. Prima c’erano i giornali e i libri che ti raccontavano le cose da un certo punto di vista. Era un po’ come succede ancora adesso nelle manifestazioni. Un milione secondo gli organizzatori, cinquantamila secondo la questura. Insomma informazione sempre e solo di parte. Sempre in contrasto. A volte in conflitto. Ma con internet le cose sono cambiate. Le posizioni sono (o avrebbero potuto esser) così tante che alla fine la verità risulta, finalmente, come una sana sfumatura.

E poi arriva Bruno Vespa riesce a dire che l’attentatore del premier è «vicino agli ambienti del social network» come se le cose fossero rimaste a prima del Muro di Berlino. Lo stesso linguaggio, la stessa maniera di impacchettare, di disegnare confini. Come se il social network fosse un partito da prendere assolutamente sul serio. Come quando Adinolfi, Grillo, il No-B day fecero intendere di esserne dei legali rappresentanti. E io che credevo che tutti insieme, finalmente, si potesse provare a discutere senza alzare la voce e allegramente, con la massima serietà affrontare i problemi più profondi. E magari, dopo aver parlato di tutto, prenderci una pausa, una sana risata che disarma qualunque incubo. E invece. Nessuna risata potrà più seppellire niente. Eccomi qui a confessare.

Il privilegio delle stupidaggini

Confesso una piccola stupidaggine. Rivendico il privilegio di fare stupidaggini, ogni tanto. Ma non quelle inconsapevoli, innocenti, date dalla sbadataggine, dalla stanchezza, delle quali poi ci si vergogna e si cerca di porre rimedio chiedendo scusa. Parlo di quelle stupidaggini fatte nel pieno delle proprie facoltà mentali, quegli afflati di gioia infantile nel combinare un piccolo guaio. E ora sono qui non tanto per chiedere scusa a Roberto o a Sergio, ma per esortare tutti i malintenzionati a desistere dall’imitare il mio gesto violento nei loro confronti. Ragazzi, si scherzava.

Già perché è necessario ribadirlo. I dibattiti di questi giorni sulla pericolosità di certe attività sulla rete, di certe apologie dei più svariati reati ha cominciato a preoccuparmi. Ho cominciato a chiedermi se vi siano certi giochi siano davvero pericolosi. Robetta che un po’ alla volta contribuisce a scaldare l’ambiente fino a provocare un vero incendio, a partire dalla combustione delle teste più calde. Oppure ci stiamo scaldando per nulla, come quelle discussioni insulse per il parcheggio o per uno sgarbo al semaforo che poco alla volta dimenticano l’origine e diventano una escalation di insulti, gesti virili e cretinate.

Mi è avanzato ancora qualche piccolo Duomo di pixel. Se qualcuno mi da il permesso di lanciarglielo addosso, prometto che faccio piano. Ma non sarà la stessa cosa.

PS. Immagino che per la quantità di male parole contenute, questo articolo avrà, nella storia di Apogeonline, lo stesso posto che l’Avvelenata di Francesco Guccini ebbe nella storia della canzone italiana.

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