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Comunicazione come spazio di interazioni

06 Novembre 2002

Comunicazione come spazio di interazioni

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La struttura ipertestuale del Web ci porta a evolvere la concezione della comunicazione dal modello lineare di Shannon (emittente-messaggio-canale-ricevente) a un modello topologico (ambiente come luogo di interazioni complesse).

Dallo spazio reale al cyberspazio: nel Web usiamo metafore spaziali. Alla pragmatica della comunicazione si aggiunge il suo habitat. Oltre alla comunicazione in senso lato, la comunicazione d’impresa deve ottenere risultati pratici, ma per poterlo fare ha bisogno dell’ambiente adatto, in senso reale, virtuale, simbolico.

A fine settembre 2002 ho partecipato al corso “Semiotica e nuovi media” della Scuola di Semiotica di San Marino. Il Dipartimento della Comunicazione dell’Università degli Studi di San Marino organizza ogni autunno la Scuola di Semiotica su temi specifici, oltre a diverse iniziative didattiche e culturali, fra cui un Master biennale sulla comunicazione. L’organizzatrice e responsabile scientifica è Giovanna Cosenza, docente all’Università di Bologna, Dipartimento degli studi sulla comunicazione. Le lezioni sono state tenute da Ugo Volli e Guido Ferraro dell’Università di Torino, da Alessandro Zinna dell’Università di Limoges, e da giovani ricercatori.

Per quanto comincino a manifestarsi approcci semiologici al Web, dalla Net Semiology di Cinzia Ligas al Semantic Web di Tim Berners Lee, una vera sistemazione scientifica non è ancora stata fatta, considerando anche il fatto che si tratta di una materia giovane e in continua trasformazione.
Dalle interessanti lezioni ho tratto parecchi spunti di riflessione su diversi temi. Comincio con lo scendere dalle rarefatte altitudini della scienza semiotica per approdare al terreno a me più familiare della comunicazione come la insegniamo e la pratichiamo nel mondo dell’impresa.

Il modello di Shannon

Per quanto in ambiente scientifico il modello di Shannon sia superato fin dagli anni ’70, in qualsiasi corso o lezione sulla comunicazione in genere si comincia proprio con questo modello, secondo cui un emittente dice qualcosa a qualcuno raggiungendolo attraverso un canale. Se io telefono a un mio amico, io sono l’emittente, l’amico è il ricevente, il telefono è il canale, le cose che dico sono il messaggio. Se il mio amico mi risponde, attiva un processo di feedback, e la comunicazione avviene in due direzioni.

Questo modello è molto semplice, ma è più adatto alla comunicazione fra macchine che a quella fra persone. Non a caso infatti è nato in ambiente cibernetico. Le macchine, si sa, hanno comportamenti più semplici di quelli delle persone. Quanto meno non si lasciano compromettere dai sentimenti, né da idee preconcette o confuse, o da interpretazioni arbitrarie.

Le persone invece quando ricevono un messaggio lo combinano automaticamente con il loro stato d’animo, i sentimenti, i pregiudizi e le conoscenze che avevano fino a quel momento. Quindi rischiano di decodificare quel messaggio in modo completamente diverso dalle intenzioni di chi lo ha emesso. Tutto ciò diventa ancor più complicato quando la comunicazione non è diretta, ma avviene attraverso i media: una lettera, un giornale, un libro, una pagina Web. La struttura lineare del modello è legata a quella altrettanto lineare del linguaggio verbale, dove si dicono o si scrivono parole l’una dietro l’altra.

Ma le persone comunicano anche con altri linguaggi non verbali, dalla mimica alla musica, dalle immagini a strutture complesse come i giardini, le città, gli stili di vita.

Altri modelli di comunicazione

La comunicazione è diversa dall’espressione. L’artista sente il bisogno di esprimere quello che ha dentro di sé, anche se non ha un pubblico pronto a comprendere la sua opera. Il comunicatore invece deve orientarsi sul suo pubblico, su chi riceve il messaggio, perché se costui non capisce, la comunicazione è compromessa. Nel caso poi della comunicazione d’impresa, chi riceve il messaggio non solo deve capirlo, ma deve anche fare qualcosa (comprare, andare da qualche parte, delegare) per giustificare i soldi che l’impresa paga al comunicatore e ai media.

Anche l’artista, per esempio lo scrittore, immagina di avere di fronte a sé un certo tipo di lettore in grado di capirlo. Anche se questo lettore non esiste ancora, lo scrittore spera che prima o poi il tipo di lettore da lui ipotizzato si incontrerà con il suo libro. Lo scrittore quindi si configura un “lettore modello”, come lo chiama Umberto Eco nel suo “Lector in fabula”. Il lettore modello non è necessariamente simile ai lettori empirici, cioè a quelli che leggeranno effettivamente il libro, ma è quella persona ideale a cui l’autore si riferisce in modo a volte esplicito, il più delle volte implicito.

Anche nella comunicazione d’impresa, da un comunicato stampa ad un annuncio pubblicitario, ci si immagina un certo tipo di pubblico. Il marketing, con i suoi metodi di analisi, cerca di costruire modelli di pubblici molto realistici, molto simili ai pubblici veri a cui ci si rivolge. Ma anche la profilazione più brillante si discosta dai singoli destinatari, non foss’altro perché questi non vengono considerati uno per uno, ma a gruppi, a tipi: la casalinga di mezza età, il militare, lo sportivo, un gruppo di ecologisti, una comunità Web.

Ecco dunque che la comunicazione fra persone ha bisogno di modelli più complessi, meno lineari.
La comunicazione può essere verticale se si muove lungo livelli gerarchici, o orizzontale se avviene fra elementi dello stesso livello. È a una via se non ammette risposta (1), a due vie se si svolge in forma di dialogo (2). Ha forma di stella se uno comunica con molti (3), di albero se si comunica da uno a pochi e da questi ad altri (4), di rete se tutti i nodi della rete comunicano fra loro come meglio credono (5).

Questi sono modelli spaziali, perché il messaggio deve raggiungere persone dislocate in un certo territorio. I media stessi servono a raggiungere persone che non sono alla portata della nostra voce, che sono troppo lontane.

Sequenze temporali

Tuttavia finora si è data poca importanza allo spazio, e si è tenuto conto soprattutto del tempo. Il modello di Shannon è lineare, perché l’informazione parte da un punto e arriva ad un altro punto, compiendo un percorso. Il percorso è una sequenza, una successione di passi l’uno dietro l’altro. Anche il feedback è informazione che torna indietro, in un percorso circolare.

Per comunicare ci vuole tempo. Le telefonate, l’occupazione dei canali radiotelevisivi e del satellite, le connessioni internet si misurano a tempo. Una lettera, un racconto, un film, si svolgono come sequenze nel tempo. Anche l’elaborazione dei dati in un computer si misura a tempo.

L’ipertesto e il Web

Dai primi anni ottanta però l’ipertesto si diffonde prima fra gli utenti del Macintosh, poi fra tutti gli altri utenti di computer, e un decennio dopo Tim Berners Lee applica la struttura ipertestuale al mondo internet, creando il web. Oggi tutti noi pratichiamo con disinvoltura la navigazione ipertestuale. Da un menu principale saltiamo agli argomenti che ci interessano di più, da un testo saltiamo ad un altro testo, da una pagina web con un semplice clic saltiamo in un’altra pagina, lontana mille miglia.

Si rompe così la sequenza e la fruizione temporale, per passare ad una fruizione spaziale. La lettura, che implica un tempo di lettura, diventa navigazione, esplorazione, che implica il muoversi, il visitare un sito per lasciarlo e andare da qualche altra parte.

Le stesse metafore che si usano nel web sono spaziali. Navigare, visitare, World Wide Web, Rete, sito, portale, home, browser, finestra, sono tutte metafore spaziali. Io leggo il giornale, ma visito il sito della testata corrispondente. Nella lettura di un libro devo procurarmi il libro portandolo presso di me, nel web sono io che mi sposto da un sito all’altro.

Anche la percezione degli oggetti che compaiono in una videata ci procura illusioni spaziali. Se clicco su una finestra e col drag and drop la trascino da un punto all’altro del monitor, ho proprio l’impressione di aver spostato un oggetto, mentre in realtà sono avvenuti solo cambiamenti nello stato dei pixel. Sfogliare le pagine di un libro dà l’idea del tempo, fare lo scroll di una pagina web dà l’idea di spostarla un po’ più giù o più su. Se usiamo più finestre sul nostro monitor, le percepiamo come se fossero poggiate l’una sull’altra.

Il puntatore del mouse è un forte elemento di identificazione, che pone me stesso dentro il monitor. Quindi mi trovo in una situazione di sdoppiamento percettivo: da un lato sono di fronte al monitor, e quindi distaccato da esso, e ne contemplo ciò che vi appare dentro. Al tempo stesso però mi identifico con il puntatore, estensione insieme del mio braccio e del mio sguardo, e rappresentazione del mio avatar all’interno della rappresentazione dello spazio virtuale che mi si presenta attraverso il monitor. Con il puntatore sono io che mi muovo da un punto all’altro, che scelgo un oggetto, lo sposto, lo modifico, lo chiudo. Con il puntatore vado da una pagina all’altra, da un sito all’altro.
Ecco dunque che il modello più appropriato per una pagina web è un modello topologico, che distingue fra sopra e sotto, destra e sinistra, dentro e fuori, diagonale sinistra e diagonale destra.

In una pagina Web, per esempio, sopra si mette una barra di comandi o di navigazione. Sotto si mette una barra di stato, o informazioni secondarie. A sinistra si mette un menu di primo livello. A destra menu secondari o notizie accessorie. Al centro si mette l’informazione principale. Dentro una finestra si mette qualcosa che si vuole distinguere da ciò che resta fuori.

Quindi, se faccio una telefonata, posso tenere ancora per buono il modello lineare. Se comunico con un sito web, oltre al “destinatario modello” o ai destinatari empirici, al messaggio, al canale, devo preoccuparmi della disposizione delle informazioni sul monitor, e del tipo di interazione che voglio far avvenire con gli oggetti che dispongo sulla mia pagina. Il tutto diventa ancora più complesso, perché non ho il controllo dello spazio sul monitor del destinatario. Non so che monitor usa, con quale risoluzione lo ha predisposto, se con caratteri grandi o piccoli, e non so nemmeno se guarda la mia pagina a schermo intero o dentro una finestra.

E fuori dal web?

Il modello topologico è valido solo nel web o anche in altri modi di comunicare?
L’ambiente in cui si comunica è spesso determinante per il buon esito della comunicazione. Pensiamo ad un salotto, e al modo con cui sono disposti divani e poltrone. A seconda della disposizione nello spazio, la conversazione avverrà a coppie, a piccoli gruppi, o sarà comune fra tutti gli invitati. A cena, se la tavolata è troppo grande, si riesce a parlare solo con i vicini. Ambienti dispersivi e rumorosi inibiscono la conversazione.

Ci sono ambienti in cui si parla a bassa voce e non si può fischiare (in chiesa), o dove si può fischiare o cantare (piazza) o perfino urlare a squarciagola (stadio).
Gli ambienti reali quindi favoriscono o inibiscono le possibilità e i modi di comunicare.
Ma con i media che cosa succede? C’è la combinazione fra l’ambiente virtuale creato dal medium (l’ambiente di un giornale, o di una trasmissione televisiva) e l’ambiente in cui si trova il fruitore, che può leggere il giornale in poltrona o in tram, e guardare la televisione da solo o in compagnia, col telecomando in mano o senza, nel proprio salotto o in un bar. Per determinati media alcuni ambienti di fruizione sono ideali, altri non sono adatti. Il cinema ha bisogno di una sala buia. La televisione non ha bisogno del buio, ma si gusta meglio da soli, a meno che non si guardi una partita di calcio.

Ecco dunque che per comunicare bene, oltre a identificare l’emittente, ad elaborare un buon messaggio, a scegliere i canali e i media giusti, a profilare al meglio il destinatario modello, si deve creare anche un ambiente adatto. Un ambiente reale, virtuale, simbolico.
L’ambiente reale è quello in cui presumibilmente si troverà il fruitore. Starà a casa o in ufficio? In giardino o in palestra? Sarà solo o in compagnia? Avrà intorno estranei? L’ambiente sarà silenzioso o rumoroso?

L’ambiente virtuale è quello creato dal medium. Per esempio è il giornale con i suoi spazi riservati alla cronaca, ai commenti, alle rubriche. O il palinsesto di una emittente televisiva.
L’ambiente simbolico è quello che il fruitore immagina in base a ciò che per lui significa l’ambiente virtuale proposto dal comunicatore, in relazione con i messaggi che riceve e con i suoi atteggiamenti di decodifica. Sarà il varietà del sabato sera in tv, o il salotto del talk show, o i luoghi selvaggi esplorati insieme con il documentarista.

Torniamo al Web

Nel caso del web, l’ambiente reale è il luogo in cui mi trovo: a studio davanti al mio computer da tavolo, o al mare con il mio notebook. L’ambiente virtuale è quello del cyberspazio. Va dal macroambiente costituito dal web, e poi dai metamotori di ricerca, dai grandi portali, all’ambiente medio del sito e della pagina, fino ai microambienti degli elementi che si trovano all’interno di una pagina: finestre, menu, pulsanti, link, barre di navigazione, sequenze audiovisive, animazioni, moduli interattivi.

L’ambiente simbolico è il significato che io attribuisco a siti, pagine, finestre, icone, pulsanti. È il mercato dove vado a curiosare e ad acquistare, la piazza dove mi incontro con la gente, il salotto dove faccio conversazione, l’aula dove studio, il mondo fantastico di un adventure game, la banca, la posta, e così via. Ma anche un certo design della pagina, che mi suggerisce un ambiente serio o ludico, tradizionale o hi-tech, realistico o fantastico. Fino ad una barra di navigazione, che mi ricorda una pulsantiera da telefono o i comandi di un registratore.

Condividere lo spazio

Per comunicare però non basta creare uno spazio, reale, virtuale o simbolico che sia. Occorre che questo spazio sia condiviso dai vari soggetti che comunicano fra di loro. Già condividere uno spazio reale non è così semplice. Io posso trovarmi in un certo ambiente fisico e riceverne informazioni, ma posso sentirlo come qualcosa di estraneo, di inospitale. Ne sono intimidito, e invece di condividere le mie opinioni e i miei sentimenti, me li tengo ben nascosti. Pensiamo all’imputato in un’aula di tribunale, o più comunemente al bambino nel suo primo giorno di scuola. Anche in aula, o in una sala da conferenze, chi parla si preoccupa di far sentire a proprio agio gli ascoltatori, ma normalmente quelli che sono nelle prime file partecipano di più di quelli che stanno in fondo.
Comunque chi vuol comunicare al meglio deve cercare di rendere l’ambiente il più accogliente possibile per le persone che interverranno.

Con gli ambienti virtuali le cose si complicano. Tutta l’arte dell’impaginazione cerca di proporre libri, giornali, manifesti che possano accogliere il lettore nel modo migliore. A tutti noi è capitato di sentirci a disagio quando leggiamo un giornale diverso dal solito, o quando il nostro giornale preferito cambia impaginazione. È un po’ come al supermercato, quando viene cambiata la disposizione dei banchi. Anche una pagina pubblicitaria cerca di accoglierci nel suo spazio, per poter condividere un’esperienza.

Gli ambienti simbolici infine sono i veri ambienti in cui avviene la comunicazione, intesa come scambio e condivisione di senso. Mi diverto con un videogame solo se mi immergo nei suoi spazi fantastici, in cui temo di veder apparire mostri minacciosi. O mi piace navigare in un sito solo se mi trovo a mio agio in quell’ambiente, in quanto posso condividerne gusti, idee, tendenze, intenzioni.

La mappa e lo spazio

Se comunicare significa interagire in uno spazio condiviso, per muoversi bene nello spazio c’è bisogno di una mappa. La mappa può rappresentare un territorio reale in modo realistico (una carta topografica) o in modo simbolico (il grafo delle linee del metro) o un territorio irreale (la mappa dell’Inferno di Dante) o un insieme di dati di diversa natura (la distribuzione del reddito su un planisfero). Ogni mappa è una semplificazione, una rappresentazione per difetto. Una carta stradale non rappresenta la vegetazione, una carta geologica non rappresenta le strade. La mappa è utile proprio in quanto presenta una visione limitata di un insieme di fenomeni.
È possibile mappare un processo di comunicazione? O un insieme di contenuti? Le mappe concettuali tentano di rappresentare processi di pensiero e di conoscenza. Si basano su concetti e su relazioni fra essi. Un sommario, una scaletta, mappano un insieme di contenuti e mi permettono di muovermi fra essi.

Anche l’indice è una mappa del libro. Tuttavia mentre un libro si vede in tutta la sua interezza, quando arriviamo in un sito web non abbiamo nessuna idea delle sue dimensioni. Possiamo addentrarci a caso, o secondo itinerari suggeriti dal sito stesso, o possiamo andare sulla mappa del sito.

Ma al tempo stesso il sito è una mappa attraverso cui mi pongo di fronte al web. La mappa mi permette di navigare solo in alcune direzioni, senza perdermi.
Ecco dunque che oltre ad uno spazio condiviso, per comunicare bene bisogna condividerne anche le mappe.

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