Negli Stati Uniti ci si muove verso la normalità quotidiana. Pian piano la vita e le attività riprendono a muoversi come di consueto (o quasi). Ormai un mese dopo i tragici attentati, sembra concretizzarsi l’imperativo lanciato subito da Bush: business as usual. Ma nonostante un po’ tutti si diano da fare, strascichi e difficoltà sono tuttora pesanti. E certamente continueranno ad esserlo ancora a lungo. Pur se è vero che in generale l’aria si è fatta più calma, e la gente attende le notizie dell’inevitabile attacco bellico con minor ossessione di due-tre settimane fa.
Non che i mainstream media abbiano cessato di battere il tamburo della guerra. Tutt’altro. E neppure che i legislatori vogliano rimangiarsi la parola di fronte a proposte di normative assai dure, dall’immigrazione alle intercettazioni telefoniche ed elettroniche. No, il giro di vite ci sarà, eccome. Tutto sta a vedere se quegli spazi di ragionevolezza che hanno fatto capolino qua e là negli ultimi giorni possano rafforzarsi, trovare credito e supporto quando la settimana prossima il Congresso voterà la versione finale del cosiddetto PATRIOT Act — acronimo per Provide Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism. Oppure se davvero le grandi testate e i network TV daranno voce anche a posizioni meno all’unisono con il mantra della guerra costi quel che costi. Posizione quest’ultima — dar spazio sui media anche a critici non belligeranti — presente altresì nei risultati del sondaggio condotto recentemente dal Pew Research Center for the People and the Press. Tra i vari dati riportati si nota infatti come, pur nel forte sostegno dell’ondata patriottica in corso, oltre il 70 per cento degli interpellati ritenga che occorra lasciare piena libertà d’espressione a quanti protestano contro le azioni militari. Percentuale che sale al 75 per cento riguardo lo spazio sui media riservato a quanti considerino la politica estera USA colpevole di aver fomentato gli attacchi dell’11 settembre. In entrambi i casi, circa il 20 per cento vorrebbe invece tappare la bocca ad ogni opposizione.
Mentre c’è chi segnala ancora problemi da stress psicologico, depressione e ansietà, nelle strade bandiere e bandierine continuano a farla da padrone. Insieme ad alcuni preoccupanti cartelli sui finestrini sulle macchine, tipo “prima o poi li faremo fuori quei bastardi!”. Ma nelle conversazioni meno formali, più d’uno avanza qualche dubbio: “They don’t have a clue”, non hanno la più pallida idea di cosa fare. Non è soltanto una facile battuta per alleggerire la tensione. Ci si riferisce ovviamente alle mosse dall’amministrazione Bush, dalle manovre pre-belliche agli accordi internazionali sempre in pieno fermento. Le lungaggini dell’attesissima retaliation sembrano irretire e deludere. Forse che si tema di fare buchi nell’acqua? O di aggravare uno scenario globale a dir poco preoccupante? Comunque sia, per il cittadino medio, pragmatico e sbrigativo, i continui inviti alla pazienza sono vicini al limite di sopportazione.
Nel frattempo i grandi media si danno da fare per tenere la gente concentrata sugli eventi in divenire senza però dimenticare le tipiche funzioni d’intrattenimento. È così che si dipanano lunghi servizi, è ad esempio il caso della National Public Radio, sull’efficacia (o quasi) delle difese nazionali di fronte a (quasi) improbabili attacchi biologici. Oppure si passano le interviste ad infinitum di parenti delle vittime, esperti d’ogni pasta, business-people avviati alla (quasi) normalità. Il tutto con i soliti toni distaccati, “professionali”, come quelli usati da professori universitari per spiegare, su alcune radio locali, la necessità d’imporre l’American Lifestyle al resto del pianeta. Oppure quelli dei generali, in congedo o meno, che illustrano metodicamente le varie tappe dell’invasione ormai prossima dell’Afganistan. Eppure mai come stavolta i media hanno già vinto la loro battaglia: nella stessa ricerca di cui sopra, l’85 per cento descrive ‘eccellente o buona’ la copertura degli eventi da parte della grande informazione. E Bush guadagna fin d’ora i galloni per la rielezione, con un 84 per cento di sostegno al proprio operato.
Peccato che la maggior parte di tali media riservi ben poco spazio, invece, all’iter legislativo delle nuove restrizioni anti-terroriste, in particolare quelle relative all’ambito tecnologico e telematico. Dopo le discussioni nelle commissioni parlamentari, in settimana è previsto l’arrivo in aula della versione emendata del PATRIOT Act. Rispetto alla stesura originaria, sembra che verrà limitata la discrezionalità dei giudici nel consentire le intercettazioni, mentre ai provider non verrà chiesto di riprogrammare i propri network per favorire il lavoro degli investigatori, pur dovendo ovviamente collaborare con questi ultimi se del caso. L’utilizzo del famigerato Carnivore, il sistema di sorveglianza elettronica dell’FBI, verrebbe consentito in “address-only mode”, ovvero registrando soltanto gli indirizzi e-mail dei corrispondenti ma non il contenuto dei messaggi stessi. Rimarrebbe però la norma che non impone il preventivo mandato giudiziario onde avviare l’installazione di Carnivore o altri dispositivi d’intercettazione in “situazioni di emergenza”.
La Electronic Frontier Foundation segnala inoltre la possibilità che vengano inserite nel disegno di legge pesanti sanzioni per ogni tipo di intrusione via computer. In pratica, anche quelle che procurano danni minimi verrebbero incluse nell’elenco delle “federal terrorism offenses,” con relativo innalzamento delle pene fino al sequestro dei beni e addirittura all’ergastolo. “Trattare crimini informatici di basso livello al pari di atti terroristi non è la risposta appropriata ai recenti eventi,” ha dichiarato Shari Steele, direttore esecutivo di EFF. “È assurdo punire un hacker relativamente poco dannoso con la possibilità dell’ergastolo.”
Al momento si tratta comunque di versioni provvisorie e semplici probabilità, per quanto motivate. Ci vorrà ancora qualche giorno prima di raggiungere una stesura definitiva che tenga conto anche delle posizioni di associazioni e industrie, individui e parlamentari preoccupati per la tutela delle libertà civili e della privacy online. Nel frattempo si spera in squarci di riflessione, in aperture di dibattito e attenzione anche nel grande pubblico, grazie alla spinta dei media indipendenti. Man mano le acque potrebbero farsi davvero meno agitate (magari per via di lontane rappresaglie?). E allora può anche darsi si arrivi a onesti compromessi normativi — sempre nel limite del possibile.