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Come cambia il cervello dei videogiocatori

03 Maggio 2010

Come cambia il cervello dei videogiocatori

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Con la scusa di verificare l'effettivo funzionamento dei giochi "allena-mente", nuovi studi scientifici esplorano il legame tra attività di gioco mediate da computer e internet ed evoluzione dell'intelligenza umana

I tanto amati videogiochi per allenare la mente, come Brain Training per Nintendo Ds, non sembrerebbero migliorare il nostro quoziente intellettivo. O almeno è quanto emerge da uno studio pubblicato su Nature e condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Cambridge, in collaborazione con la BBC Lab UK. Oltre 11.000 volontari (di età compresa tra i 18 e i 60 anni), scelti fra gli spettatori del programma Bang goes the theory della BBC, sono stati sottoposti a una serie di test progettati dagli scienziati del Medical Research Council e dell’Alzhaimer’s Society.

I partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: nel primo venivano valutate le capacità di ragionamento e di problem-solving, nel secondo erano previste prove che stimolavano la memoria a breve-termine, l’attenzione, le abilità matematiche e spaziali e, infine, agli appartenenti al terzo gruppo (quello di controllo) veniva semplicemente chiesto di navigare in Internet. I soggetti dovevano allenarsi almeno dieci minuti al giorno, tre volte la settimana per minimo sei settimane. Risultato: aumento della performance di gioco, ma senza particolari benefici per le funzioni cerebrali. «Statisticamente non ci sono differenze significative tra i miglioramenti osservati nei partecipanti che hanno giocato ai nostri brain training games, e coloro che hanno trascorso lo stesso tempo su internet», spiega Adrian Owen, neuroscienziato del Medical Research Council. «È molto specifico», continua lo studioso riferendosi al gioco, «non andrà a migliorare il tuo QI, non ti aiuterà a ricordare la lista della spesa».

Brain training

Secondo Torkel Klingberg, uno psicologo del Karolinska Institute di Stoccolma, attualmente ciò che viene pubblicizzato come brain training spesso non è basato su evidenze scientifiche, oltre a non essere correttamente testato. E Nintendo, dal canto suo, chiarisce che lo scopo dei suoi giochi non è migliorare le funzioni cognitive, ma allenare la mente: si tratta solo di «sfide divertenti che comprendono semplice aritmetica, memorizzazione e lettura». E infine aggiunge «è come un allenamento per il cervello e le sfide nel gioco possono aiutare a stimolare la mente del giocatore». Scettico sulla veridicità di quanto dichiarato nella campagna pubblicitaria di Brain Training, anche Alain Lieury, professore di psicologia cognitiva all’Università di Rennes (Bretagna), ha voluto condurre un’indagine coinvolgendo 67 bambini di dieci anni: «È l’età in cui si ha maggior probabilità di miglioramento», sostiene lo studioso, «se non funziona nei bambini, non funzionerà sugli adulti» conclude.

Il campione è stato diviso in quattro gruppi: i primi due hanno utilizzato per sette settimane la Nintendo DS per esercizi di memoria, il terzo si è cimentato in puzzle con carta e penna e il quarto è normalmente andato a scuola. Inoltre, prima e dopo lo studio, i soggetti hanno svolto una serie di compiti, riguardanti test di logica, memorizzazione di parole su una mappa, addizioni e interpretazione di simboli. Stando ai risultati della ricerca, i bambini dei primi due gruppi non hanno mostrato miglioramenti significativi nei test di memoria, né differenze sostanziali rispetto a chi aveva svolto gli esercizi su carta. «C’erano pochi effetti positivi ed erano deboli» afferma il professore «Il Dr Kawashima fa parte di una lunga lista di commercianti dei sogni».

Come un muscolo

Ma, ancora una volta, le ricerche sul funzionamento cerebrale sono tante, come tante sono le opinioni, spesso contrastanti tra loro. Tant’è che secondo un recente studio della London Metropolitan University i giochi allena-mente possono avere effetti positivi nei soggetti che hanno subito danni al cervello o che soffrono di demenza. I ricercatori hanno studiato 64 soggetti, tra i 20 e i 71 anni, con problemi cerebrali (per esempio causati dall’ictus), e li hanno suddivisi in due gruppi: ad alcuni veniva dato un dispositivo elettronico con un gioco che testava la memoria a breve termine per 15 minuti, mentre gli altri dovevano eseguire dei tradizionali esercizi di ricordo della parola utilizzando carta e penna. Dopo aver eseguito un test di memoria su tutti i partecipanti, i ricercatori hanno osservato un significativo cambiamento in entrambi i gruppi ma, nello specifico, coloro che si erano allenati con i videogiochi hanno avuto un miglioramento della memoria pari al 60%, contro il 37 dell’altro gruppo.

«La cosa importante è che alle persone sia davvero piaciuto utilizzare i videogiochi, erano divertiti. È molto difficile convincere i soggetti con problemi di memoria causati da danni alla testa o da disturbi a non fermarsi di fronte a test con carta e penna perché si annoiano» dichiara Linton Khor, che ha effettuato lo studio «Questo è un modo per motivarli e porta via solo 15 minuti al giorno». E aggiunge: «Negli ultimi anni abbiamo scoperto che il cervello è come un muscolo, c’è la possibilità per nuove cellule di crescere se allenate».

Ippocampo

Inoltre, molti studi ci mostrano come lo stimolo di una parte specifica del cervello incoraggi lo sviluppo di quella regione: ne è un esempio una ricerca su alcuni tassisti di Londra che suggerisce una correlazione tra lo sviluppo dell’ippocampo (la regione responsabile della memoria spaziale) e l’aumento delle loro abilità di percorso nella città. E a questo proposito recentemente altri ricercatori hanno notato che alcune regioni del cervello sono più grandi nei giovani appassionati di videogiochi: gli studiosi hanno sviluppato un gioco chiamato Space Fortress, simile a un simulatore di volo e al classico Space Invaders e hanno misurato la grandezza di specifiche aree del cervello a 42 ragazzi (18 – 28 anni) prima e dopo aver giocato.  Quelle particolari regioni, spiegano gli scienziati, determinano la capacità sia di imparare abilità motorie e nuove idee che di adattarsi alle nuove situazioni.

Alcuni studiosi dell’Università della California, si sono interessati alla misurazione dell’attività del cervello degli adulti durante delle ricerche su Internet. A questo scopo, 24 persone, tra i 55 e i 78 anni, sono state divise in due gruppi in base alla loro computer experience: il primo gruppo doveva compiere delle ricerche servendosi di pulsanti e tastiere che simulavano l’online search, il secondo invece doveva semplicemente leggere delle pagine disposte come in un libro. Gli studiosi hanno potuto così osservare, tramite risonanza magnetica, le differenze tra i gruppi: le aree del cervello utilizzate erano le stesse, ma chi usava internet e aveva già esperienza registrava una maggiore attivazione del cervello, in particolare della parte anteriore, quella interessata al decision-making e ai ragionamenti complessi. In più, anche l’età del cervello e la sua struttura erano cambiate: secondo Gary Small, uno dei ricercatori, internet (e più in generale le tecnologie) aiuta a mantenere il cervello attivo e in forma.

Makes us stupid?

Ma, come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, il funzionamento del nostro cervello non è del tutto chiaro alla scienza e trovarsi di fronte a delle discrepanze in letteratura è pressoché inevitabile. Nell’estate 2008, Nicholas Carr, studioso della comunicazione, ha pubblicato su The Atlantic un articolo che il mensile ha provocatoriamente intitolato Is Google Making Us Stupid?. In realtà quella dell’autore era una riflessione personale su come internet stia in qualche modo limitando la sua capacità di concentrazione e di osservazione. «La mia mente si è abituata a raccogliere informazioni nello stesso modo in cui la rete le distribuisce: un flusso di particelle che si muovono a grande velocità. Una volta mi sentivo come un subacqueo che si immerge nel mare delle parole. Ora schizzo sulla superficie come un ragazzino su un acquascooter». Secondo lo studioso, la lettura di un libro o di ogni altra forma di contemplazione favorisce la creazione di associazioni, deduzioni e analogie: «Se perdiamo questi spazi tranquilli, o li riempiamo di “contenuti”, sacrificheremo qualcosa di importante non solo in noi stessi ma nella nostra cultura»

Poco dopo, Jamais Cascio, un associato all’Institute for the future e socio senior all’Institute for Ethics and Emerging Technologies, ha scritto per lo stesso giornale un articolo in cui sosteneva che, mentre l’aumento delle tecnologie e i media possono modificare la capacità di concentrazione degli esseri umani, stiamo sviluppando la cosiddetta fluid intelligence ovvero «la capacità di riuscire a trovare un significato nella confusione e a risolvere nuovi problemi, indipendentemente dalle conoscenze acquisite». E probabilmente, commenta l’autore, saranno proprio le tecnologie che ci aiuteranno a trovare velocemente le informazioni.

In trasformazione

Si ritorna all’ancora vivo dibattito, tra ottimisti e scettici, su come internet, le nuove tecnologie e  il digitale stiano cambiando le nostre vite e sul loro impatto sul nostro cervello. Naturalmente al momento non si dispone di una visione univoca, certo è che il cambiamento è rapido e poco prevedibile. Probabilmente, spiega Derrick de Kerckhove in un’intervista, ci muoviamo verso un nuovo illuminismo, in quanto «il Web sta proponendo una nuova modalità di memoria e di distribuzione dell’informazione». E la cultura digitale è la fase cognitiva dell’elettricità, la cui trasformazione è inconsapevole.

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