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Combattere la crisi col consumo collaborativo

02 Novembre 2011

Combattere la crisi col consumo collaborativo

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In Italia è ancora un fenomeno di nicchia, ma negli Stati Uniti ha subito un forte impulso dopo il crollo economico del 2008 e vede ogni giorno migliaia di persone condividere, scambiare, rimettere in circolo beni e competenze

Ieri  ho dato via il mio passeggino doppio. L’ho venduto su Subito a ben 35 euro. Una grande soddisfazione; non tanto per il guadagno, direi poco significativo, quanto perché ho rimesso in circolo un passeggino pieno di ricordi invece di buttarlo, e perché l’ho consegnato direttamente al nuovo proprietario, invece di portarlo in discarica. Un’amica, qualche ora dopo l’affarone, mi ha scritto invitandomi a un bookcrossing che si terrà tra qualche giorno in un parco di Milano: si scambiano libri ed è un’occasione per rivedere lei e altri vecchi amici. Andrò. Invece la mia amica Giovanna oggi mi ha comunicato con soddisfazione di aver trovato un appartamento dove alloggiare con la sua famiglia il prossimo week end a Barcellona: un quadrilocale a 120 euro al giorni prestato da un utente su istopover. Forse il mio punto di osservazione è un po’ di parte, ma questi tre episodi, avvenuti in meno di 24 ore, mi sembrano segnali che anche in Italia si stia cominciando a sperimentare un diverso comportamento d’acquisto, basato sulla condivisione e il riciclo dei beni piuttosto che sulla loro proprietà.

Modelli di consumo

Il recente lancio di reoose.com, ecostore del riutilizzo e del baratto,  i più di 3 milioni annunci su Subito.it, e i 22.000 membri della community di zero relativo, fino alla sedia-bici a noleggio di Snark, sembrano avallare le mie sensazioni e le abitudini delle mie amiche. Ma se, in Italia, rimane sicuramente ancora un fenomeno di nicchia, non così negli Stati Uniti, dove migliaia di persone attraverso internet condividono, scambiano, rimettono in circolo beni e competenze. Consumo collaborativo l’hanno chiamato da Rachel Botsman e Roo Rogers nel loro libro What’s mine is yours e, secondo il Time, è una delle 10 idee che cambierà il mondo. «Si sta reinventando», afferma Botsman, «non solo ciò che consumiamo ma anche il modo in cui consumiamo». In America oggi tutto può essere prestato, noleggiato, scambiato o condiviso: dal trapano alla falciatrice (presi in prestito dal vicino di casa su sharesomesugar o da un amico su neighborGoods), all’orto (Landshare), ai giocattoli (Toygaroo), al garage (parkatmyhouse), fino alle competenze (Brookiling Skillshare), al tempo (taskrabbit), e­­­­­­ persino al denaro (Zopa).

Alcuni modelli si sono già affermati, come Zipcar, car-sharing più smart dei tradizionali, che in un anno dal lancio aveva già raggiunto 130 milioni di dollari di ricavi; oppure Netflix, sistema di noleggio di Dvd e video giochi tramite streaming con più di 10 milioni di iscritti e oltre 10.000 titoli; e Airbnb, dove è possibile affittare appartamenti direttamente dalle persone scegliendo tra più di 15.000 città sparse in 192 paesi. Ma al di là dei singoli casi è tutto il mercato della condivisione che sembra avere un futuro promettente. Secondo Gartner, riporta Fastcompany, i prestiti fra pari (financial-lending) raggiungeranno i 5 miliardi di dollari entro il 2013; Frost & Sullivan sostiene che i progetti di car-sharing solo in Nord America raggiungeranno più di 3 miliardi dollari di ricavi entro il 2016. E, infine, la stessa Botsman stima che l’intero ecosistema della condivisione è un mercato da più di 110 miliardi di dollari.

Dopo il 2008

Un movimento che trae origine dalla crisi economica del 2008 e trova in internet la piattaforma ideale per esprimersi. «Abbiamo vissuto per più di 50 anni in una società che ci ha incoraggiati a vivere al di sopra delle nostre possibilità finanziarie ed ecologiche», scrive Botsman. «Il 2008 è stato l’anno in cui Madre Natura e i mercati hanno detto basta». E mentre il mondo attendeva un segnale o un’idea per far riprendere l’economia, i consumatori, grazie soprattutto a internet e ai social media, sperimentavano e prendevano familiarità con un nuovo modo di esprimersi, partecipare, essere protagonisti e fare comunità. «Il consumo collaborativo nasce  online, condividendo file, codice, foto, video e conoscenza», scrive ancora Botsman, «ora cerchiamo di applicare gli stessi principi e comportamenti alla vita di tutti i giorni». È il potere di organizzare senza organizzazioni, come scriveva in quegli anni Shirky, che perde la sua dimensione meramente virtuale e impatta, in maniera significativa, nella vita di tutti i giorni. I benefici che le persone traggono dal consumo collaborativo sono infatti del tutto reali: il riuso e il riciclo riducono l’impatto dei consumi sull’ambiente e inducono al risparmio economico, favorendo addirittura il guadagno attraverso l’affitto o la vendita di beni; la condivisione delle risorse incoraggia l’incontro e il formarsi di comunità.

La sostenibilità, in generale, è la prima conseguenza dei comportamenti collaborativi anche se, spesso, chi inizia a sperimentarli ha un obiettivo meno ideologico e più personalistico (risparmiare tempo, denaro, trovare un alloggio o un servizio migliore ecc.). Un esperimento condotto da Zipcar nel 2009 aveva chiesto a 250 persone di non usare la propria macchina per un mese, ma di utilizzare mezzi di trasporto alternativi. Alla fine del periodo i partecipanti avevano aumentato l’uso dei mezzi di trasporto del 98% e quello della bicicletta del 132%, e avevano camminato per il 93% di miglia in più. Il 47% dei partecipanti aveva dichiarato anche di aver perso peso. Ma il risultato più straordinario fu che il 61% delle persone che aveva partecipato all’esperimento stava pensando di continuare a vivere senza macchina, a riprova del fatto che chi inizia a consumare in maniera collaborativa, che sia per condividere una macchina o scambiare vestiti, anche se non spinto da particolari convinzioni ambientali, sociali o politiche difficilmente riprende le vecchie abitudini di consumo.

Fidarsi

Nessuna ideologia, dunque, dietro al consumo collaborativo, nessun dogma, nessuna tardiva rivoluzione comunista. Piuttosto un movimento trasversale composto da uomini e donne che si muovono con una certa dimestichezza su internet e sui social media e da giovani che trovano in queste piattaforme il loro modo naturale di consumare. Ma come fidarsi di chi ti offre un passaggio o di uno sconosciuto che dorme nel tuo appartamento? Come condividere senza timori il tuo giardino, la tua macchina, il tuo garage se non conosci personalmente chi ci entra? Come provano gli incidenti denunciati dagli utenti di Airbnb, la condivisione non è priva di rischi, anzi, è forse la sfida più importante che deve affrontare chi gestisce piattaforme di collaborazione.

eBay è stata la prima a porsi il problema, creando un sistema di rating che permettesse di conoscere l’affidabilità di un determinato venditore. Si ispirano a questo sistema, per esempio, CouchSurfing, AirbnbTaskRabbits mentre Zimride e NeighborGoods consentono di creare reti chiuse a cui possono accedere solamente amici e conoscenti. E se è vero che in rete sei quello scrivi e che fai, molte piattaforme offrono un meccanismo di reputazione aggiuntivo, collegando i profili degli utenti con quelli presenti sui principali social network. Proprio su questi lavora anche TrustCloud, una start up che ha l’ambizione di costruire un sistema di reputazione on line attraverso un algoritmo che raccoglie i movimenti delle persone sui principali social media e ne calcola affidabilità, coerenza, e reattività, dando origine a un badge che ognuno di noi può portarsi dietro su qualsiasi sito web. Una sorta di carta d’identità virtuale che giudica e monitora come ci muoviamo in rete, evocando memorie forse un po’ troppo orwelliane.

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