Circa un paio di anni fa avevamo raccontato la storia di un mio amico blogger a cui Facebook aveva rimosso un post decisamente innocuo e questa estate mi ero occupato della storia di un altro amico, scrittore, che si era visto addirittura sospeso l’account per qualche giorno a causa di una battuta palesemente goliardica. Nel frattempo era circolata anche la notizia che lo staff di Zuckerberg aveva rimosso dalla piattaforma l’immagine della vagina più famosa della storia dell’arte: il noto quadro L’Origine du monde realizzato nel 1866 dal pittore francese Gustave Courbet e oggi conservato nel Museo d’Orsay di Parigi.
Come se non bastasse, appena rientrati dalla pausa estiva, è arrivata un’altra notizia simile, ancora più incomprensibile. Lo scrittore norvegese Tom Egeland aveva pubblicato su Facebook la nota foto della bambina che scappa da una scena di guerra in Vietnam, presente su tutti i manuali di storia contemporanea; poco dopo l’immagine era stata rimossa e l’account dello scrittore sospeso. Salvo poi arrivare al dietrofront disposto da Palo Alto e alla contestuale pubblica ammenda per la goffa svista.
Questi episodi erano stati per me l’occasione di riflettere seriamente su una delle questioni più delicate relative alla regulation di Internet, cioè:
Chi decide che cosa deve essere tolto dal web e secondo quali criteri e procedure?
Interrogativo ancora più pungente se si considerano i vari contenuti al limite della legalità (oltre che del buon gusto) su Facebook: pensate alla numerose pagine neonaziste, neofasciste, razziste, omofobe che permangono nonostante le costanti segnalazioni.
La risposta più soddisfacente (ma anche abbastanza preoccupante) a quell’interrogativo l’avevo trovata in un articolo uscito su Wired.com, intitolato The Laborers Who Keep Dick Pics and Beheadings Out of Your Facebook Feed. Letteralmente: Gli operai che tengono le foto di cazzi e le decapitazioni fuori dal tuo feed Facebook.
Bassa manovalanza
La scelta lessicale di laborer invece di employee o di un più neutro worker credo sia voluta e in effetti calza perfettamente con il concetto che l’autore Adrian Chen vuole sottolineare nell’articolo. Si tratta di bassa manovalanza dell’industria di Internet che, situata per lo più in Paesi in via di sviluppo (ad esempio le Filippine), in cambio di una paga davvero misera (ad esempio 500 dollari al mese) passa l’intera giornata lavorativa a cancellare foto e video che – per usare la classica dicitura – non rispettano gli standard della comunità.
Dunque non si tratta di giudici, avvocati, policy maker, esperti di etica, bensì di quelli che alcuni definiscono i nuovi schiavi della new economy: semplici dipendenti in outsourcing, privi di una preparazione specialistica e sommariamente addestrati a svolgere il loro compito. Questo per dire che non c’è da scandalizzarsi se spesso prendono un granchio.
Libertà in gioco
Aggiungiamo che le sensibilità sono inevitabilmente molto diverse a seconda della religione, dell’estrazione culturale, dell’etnia di questi operatori. Siamo sicuri che un filippino, un iraniano, un californiano reagiscano allo stesso modo di fronte a una foto di nudo? Ovviamente no. Altro problema nuovo sollevato solo negli ultimi anni grazi all’avvento di un medium senza confini come Internet.
Questione complessa, che di certo non risolveremo in un semplice blogpost. Non c’è dubbio però che i casi di rimozioni e sospensioni non proprio motivate sui social media siano in costante aumento e a volte suscitino seri dubbi legati alla violazione dei sacrosanti principî a tutela della libertà di espressione (che tra l’altro la civiltà umana ha elaborato e consolidato in secoli di battaglie sociali e rivoluzioni).
È per questo che Electronic Frontier Foundation, sempre sul pezzo in fatto di libertà digitali, ha lanciato Online Censorship, un apposito sito-osservatorio in cui gli utenti possono segnalare casi sospetti di troppo disinvolte cancellazioni di post o sospensioni di account sui social media.
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