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Cambio il (mio) mondo con la faccia di Sakineh

22 Settembre 2010

Cambio il (mio) mondo con la faccia di Sakineh

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Quanto sposta l'uso dell'avatar come simbolo di protesta? Probabilmente molto meno di quanto piacerebbe pensare ai protagonisti della mobilitazione. Ma al tempo spesso molto più di quanto la dimensione pubblica lascia trasparire

Due notizie concludono una settimana di mobilitazione. La prima riguarda la sentenza di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per il reato di adulterio. La sentenza è stata sospesa. Una buona notizia. La foto sul mio profilo di Facebook, fino a oggi una fototessera di Sakineh, potrà tornare a mostrare la mia faccia. Anzi in mancanza di una bella foto opterò per quella di un orso impagliato in omaggio alla leggerezza che contraddistingue il social network. Un paio di settimane fa avevo adottato il volto della condannata come forma di dissenso. Ora che la sentenza è sospesa la mia protesta contro il governo iraniano, per qualche giorno, va in soffitta.

Le forme di manifestazione civile si sono diffuse soprattutto da quando l’opinione pubblica si è resa conto (più o meno a partire dal XVII Secolo) della propria capacità di influenzare le scelte della classe dirigente. La parola “influenzare” è una parola chiave. Se si è contrari a una certa decisione o una certa condizione che non rispecchia le nostre aspettative, minaccia la libertà, la giustizia, il nostro sopravvivere, possiamo esprimere il dissenso senza usare strumenti di prevaricazione o di violenza. Possiamo assumere atteggiamenti, simboli o altre forme, per così dire traslate, per attirare l’attenzione, provocare una discussione, influenzare le opinioni. Nel catalogo trovano posto bandiere, braccialetti, cartelli, la sola presenza fisica e l’immagine che ci rappresenta sul social network.

Basso profilo

Il vantaggio di questo tipo di manifestazioni sta nel mantenere il dissenso a un profilo talmente basso da non giustificare ritorsioni violente da parte dell’oppositore. Se non quando è ormai troppo tardi, quando cioè la diffusione del messaggio è talmente capillare e condivisa che neppure l’annientamento dei promotori può fermare il  movimento d’opinione. Per questa ragione le forme di protesta leggera possono essere messe in atto anche in regimi molto repressivi, da oppressi la cui “potenza” è sproporzionatamente inferiore al proprio oppressore.

Chi, tra i generali della giunta argentina, si preoccupò delle quattordici signore che, foulard bianco in testa, si riunirono di fronte alla Casa Rosada, sede dell’esecutivo argentino quel 30 di aprile del 1977? Le donne tornarono, ad esse se ne aggiunsero altre, e insieme  presidiarono a lungo la piazza sulla quale si affacciava il palazzo governativo e che avrebbe dato il nome al movimento. Erano le Madri di Plaza de Mayo. Una pedina piccola ma fondamentale per la caduta della giunta militare. Un movimento talmente innocuo che nessuno aveva pensato a fermarlo. Come i movimenti di protesta che si mettono in atto sulla rete. Fotografie oscurate, facce adottate, scritte che esprimono dissenso. Atti che non fanno male a nessuno, come le mamme di Plaza de Mayo. Il problema è che sulla rete il profilo è così basso che rischia davvero di non trasformarsi mai in qualcosa di efficace.

Real politik

In questi giorni si è parlato molto della “mobilitazione” diffusa per il caso di Sakineh. I governi si sono mossi. I ministri si sono attivati. Anche i governi locali, i comuni, le circoscrizioni hanno messo in atto il loro dissenso soprattutto diffondendo l’immagine di una donna che stava per soccombere a una usanza barbara. E così ha fatto, naturalmente, la rete. E in particolare il social network. Insomma Facebook. Io stesso ho sentito la necessità di “adottare” il volto di Sakineh come fosse un modo, simbolico, di starle vicino. Di dire al mondo (in realtà a poco più dei miei contatti) che se anche le tireranno le pietre noi ci ricorderemo di lei, le saremo, vitrualmente, vicini. E quando è arrivata la notizia della sospensione è stata una piccola vittoria. Ma quanto questi atti simbolici hanno un vaolre effettivo? Quanto è più potente la leva economica, o politica che un ambasciatore, un ministro degli esteri quando minacciano sanzioni, interruzioni di contratti e accordi? Quanto della vita pubblica riusciamo davvero a influenzare con i mezzi, anche quelli nuovi di cui disponiamo? Le mobilitazioni di opinione, anche autorevoli non salvarono Joseph O’Dell tanto per fare un nome. E per lui si mobilitarono il Papa e Madre Teresa, due entità che possono agire solo in senso simbolico essendo sprovvisti (comcome ben sapeva Stalin) di una forza tangibile.  Quale forza di dissusione  può esercitare un’azione su Facebook, un mondo parallelo e inerme, nei confronti della realtà?

Le mobilitazioni sono atti simbolici. Durante la crisi turco-israeliana dell’attacco alla Mavi Marmara, quando i governi facevano la voce grossa e minacciavano l’interruzione delle relazioni diplomatiche, il telegiornale pubblico turco annunciava con serafica franchezza l’aumento del 30% delle relazioni economiche tra i due presunti “nemici”. Le leve, quelle vere sembrano da un’altra parte rispetto alle possibilità di una protesta simbolica. E se un atto simbolico avviene su un luogo virtuale il suo disinnesco è completo. Ci si lava la coscienza con un gesto che non costa niente e non fa male a nessuno.

Echi buoni, echi cattivi

Il paradosso è che, mentre le campagne buone, sul social network, sembrano avere eco soltanto nel ristretto mondo parallelo, ecco che il “cattivo” ha una risonanza ben più potente. Provate a gettare gattini in un fiume o a filmarvi mentre picchiate un disabile o a creare gruppi che inneggiano alla violenza. Immediatamente l’attenzione, il “dibattito” si infiamma, i ministri dicono la loro, i legislatori invocano una regolamentazione di questa benedetta opinione pubblica. E intanto se ne parla. Per un certo periodo si è parlato del “popolo della rete”. E grazie a questa efficacia del “male” sulla rete, qualcuno, con abili circonvoluzioni sintattiche, lo ha assimilato agli antagonisti (i quali sono assimilati ai centri sociali, i quali sono assimilati ai…) Insomma a forza di assimilazioni le attività sulla rete si sono ammantate di un colore cupo, nel quale solo la parte più violenta sembra raggiungere la realtà vera. Mentre il resto passa sotto un silenzio indifferente.

Eppure quando ho dismesso la foto di Sakineh ho sentito come una mancanza. Dan Gardner, autore di Risk, The Sience and Politics of Fear racconta di come, derubato del portafoglio, si sia sentito violato non tanto nei suoi possedimenti quanto delle immagini dei suoi bambini, quasi che quell’oggetto simbolico che ne è rappresentzione ne contenesse davvero l’anima. Il mondo simbolico ha dunque una sua importanza, forse più personale che pubblica, più sottilmente emotiva che con un valore realmente strategico. Le campagne come quelle per Sakineh diventano quindi un gesto che vale più per l’individuo che lo compie, incidendo sulla sua visione del mondo, sul suo senso di apparteneza piuttosto che sulla realtà dei grandi movimenti storici. Ci troviamo così a vivere in un mondo sempre più duplice. Da una parte il  privato che con gli strumenti di comunicazione diventa sempre più strutturato e completo, dall’altra la realtà tangibile: due mondi che viaggiano su due binari diversi e troppo spesso paralleli.

Grazie a questa doppia cittadinanza posso constatare che la seconda notizia che chiude la settimana è meno buona: neanche questa volta Dio riporterà in vita i dinosauri. La promessa del gruppo su Facbook “If 1 Million People Join, God Will Bring Back The Dinosaurs” è ancora lontana dall’essere realizzata. Gli adepti si sono fermati a qualcosa di più di quarantacinquemila. Ma sono sicuro che il  movimento otterrà il suo risultato: lassù qualcuno sarà convinto. E per Natale Sofia avrà il suo velociraptor.

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