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Buone nuove per la privacy online?

29 Marzo 2002

Buone nuove per la privacy online?

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Un sondaggio rileva la netta diminuzione della raccolta di dati personali tra i maggiori siti di e-commerce. Ma non basta a tutelare i cyber-rights individuali, sostiene EPIC.

Privacy online, tema sempre al centro delle preoccupazioni dei netizen. Preoccupazioni che negli USA sembrano aver trovato riscontro nei mutati comportamenti dei maggiori siti di e-commerce. Almeno questo si ricava da un recente studio curato da Progress & Freedom Foundation. Diminuiscono i siti che raccolgono dati personali tramite cookie e altri metodi ‘nascosti’ (dal 96 per cento del 2000 all’attuale 84 per cento). Una percentuale che s’abbassa ulteriormente al 74 per cento nel caso di analisi-campione su 300 siti minori. Cifre accolte positivamente dall’industria, seppur non ancora sufficienti per garantire la piena affermazione dei cyber-rights. Spiega Chris Hoofnagle, consigliere legale di EPIC (Electronic Privacy Information Center): “Il fatto che siano sempre i meno i siti mirati alla raccolta dei dati è un passo nella direzione giusta. Ma ciò non deve sostituire norme legislative a tutela dei diritti individuali, specialmente nel caso della condivisione di qualsiasi dato personale.”

Secondo gli autori dello studio, il risultato saliente è che “da ogni punto di vista, i siti web commerciali oggi raccolgono una minore quantità di informazioni rispetto a due anni or sono. In aggiunta, ancor più drastica la riduzione dei siti che utilizzano cookie di terze parti.” L’indagine è stata effettuata lo scorso dicembre da Ernst & Young per conto della Progress & Freedom Foundation, organizzazione nonprofit generalmente contraria a interventi governativi in ambito digitale e supportata tra l’altro dalle maggiori società high-tech, inclusa AOL Time Warner. Obiettivo principale era l’aggiornamento delle cifre sulla privacy online diffuse nella primavera 2000 dalla Federal Trade Commission. Stavolta sono state verificate le pratiche (e le policy) di oltre 100 tra i maggiori siti statunitensi dediti all’e-commerce, oltre a campionamenti casuali fra 300 società minori. Nel primo gruppo, la percentuale dei siti che raccolgono i dati dell’utente, oltre la email, è scesa all’84 per cento, tagliando di un terzo il ricorso ai cookie di terze parti. Nel secondo gruppo, le cifre s’abbassano ancora: rispettivamente, 74 per cento e 50 per cento.

Ron Plesser, esperto di privacy che opera in gruppi industriali quali Online Privacy Alliance e Direct Marketing Association, ha subito definito “molto incoraggianti” tali risultati, aggiungendo che invece di limitarsi a inserire online le policy sul tema, ora l’imprenditoria elettronica si prende cura di “applicarle adeguatamente”. Un cambiamento in atto dovuto a due ragioni principali, spiegano i curatori di Progress & Freedom Foundation: il minor valore attributo dal mercato ai dati raccolti, rispetto al primo sondaggio condotto in pieno boom digitale; le frequenti e articolate reazione negative dei consumatori. Altri esperti scommettono tuttavia unicamente sul primo fattore. Richard Smith, quotato consulente su sicurezza e privacy digitali: “Quel che lo studio dimostra è lo scoppio della bolla Internet. È ovvio che le cifre siano in ribasso, stante il fallimento di gran parte delle società che offrivano servizi per conto terzi. Sono quasi scomparse le aziende che raccolgono dati… poiché non sono mai riuscite a utilizzare tali dati per far soldi.”

Cresce intanto il numero di siti che chiedono esplicitamente all’utente di dare l’assenso alla raccolta dei dati personali (opt-in), piuttosto che il più ambiguo e scontato opt-out. Altro mutamento che sembrerebbe riflettere le lamentele di consumatori e associazioni al riguardo. Ancora, un sito su quattro tra i domini più visitati ricorre alla Platform for Privacy Preferences, meglio nota con l’acronimo P3P — sistema simile alle comuni etichette esplicative per i prodotti nutritivi. L’opzione P3P offre ai visitatori una rapida panoramica sull’effettiva tutela della privacy da parte del sito specifico, in alternativa al ‘fine print’, il testo integrale spesso lungo e incomprensibile che nessuno si dà la pena di scorrere. Ma comunque sia, rilevano i portavoce di EPIC, simili pratiche industriali non devono né possono fare le veci di precise “norme legislative a tutela dei diritti individuali” tuttora assenti. Anche perché, al di là dell’effettiva e diffusa implementazione di tali pratiche, esiste un rapporto direttamente proporzionale tra la frequenza della navigazione online e la possibilità che i propri movimenti vengano in qualche modo registrati.

Non a caso la stessa EPIC ha appena diffuso la versione aggiornata di un documento intitolato Public Opinion on Privacy, in cui si offrono attente analisi relativamente a simili sondaggi, i quali “riportano con consistenza il forte supporto degli Americani per leggi sulla privacy in grado di tutelare i propri dati personali.” Tra le linee-guida fornite sulla base dei poll passati e recenti, il documento evidenzia ad esempio alcuni capisaldi sulle precise richieste avanzate dai singoli utenti: responsabilità e sicurezza da parte delle entità web, possibilità di denuncie legali per violazioni della privacy, norme legislative dettagliate in opposizione all’autoregolamentazione industriale, opzioni a sostegno dell’anonimato, opposizione a pratiche di ‘web tracking’, forti timori sulla corretta gestione dei dati sia a livello pubblico che privato. Il tutto anche alla luce delle diramazioni provocate dai tragici eventi dell’11 settembre.

È così che il quadro generale conferma come, pur a fronte di qualche passo avanti nel settore dell’e-commerce, la privacy online rimane certamente l’area di maggior preoccupazione per ogni navigatore statunitense (e non solo). D’altronde l’ennesimo sondaggio condotto lo scorso autunno da Markle la dava abbondantemente al primo posto (oltre il 65 per cento) tra le cause di ansia nell’accingersi a girovagare e fare acquisti in Internet. Lontanissimi gli altri crucci alla vita online: disponibilità ai minori di materiali per adulti (17 per cento), frodi e truffe varie (16 per cento).

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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