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Buon lavoro, Mr. President

05 Novembre 2008

Buon lavoro, Mr. President

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Ha vinto il "candidato di Internet": un piccolo passo per un politico, ma forse un passo enorme per la società contemporanea. Tuttavia Barack Obama non si è imposto perché ha usato i social network: ha trionfato perché ha costruito una rete sociale sulle proprie idee e l'ha popolata di persone

Con una definizione imprecisa ed equivoca, nei mesi scorsi capitava di dire che Barack Obama avrebbe potuto passare alla storia come “il primo presidente di Internet”. Di Internet perché molto amato e sostenuto negli spazi digitali, ma anche perché la sua candidatura è emersa da un sostanziale anonimato grazie a un uso consapevole e innovativo di quelle dinamiche di rete di cui da tempo andiamo parlando. Bene, oggi quello stesso candidato, al quale pochi avrebbero pronosticato anche solo la nomination democratica, è il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, il successore designato di George W. Bush. In queste pagine abbiamo cercato spesso di approfondire i motivi di novità della candidatura di Obama, motivi che nelle prossime ore saranno probabilmente travolti e rivisitati da un’ondata di entusiasmo senza precedenti. Col rischio che l’esaltazione tecnologica travolga il buon senso.

Obama non ha vinto grazie a Internet, ma usando Internet per fare quello che qualunque politico dovrebbe porsi come obiettivo: ascoltare le persone, confrontare le idee, fare sintesi. Condendo il tutto con quel po’ di carisma e di visione che rende un leader tale. Nel corso delle dirette che hanno seguito lo scrutinio elettorale fin dentro la pancia degli Stati Uniti è stato spesso enfatizzato il dato puramente quantitativo: la sbalorditiva somma di denaro raccolta coi micro finanziamenti, il numero di contatti al sito web, le vette di iscritti al social network, le consultazioni dei video su YouTube, la quantità di guru competenti strappati a start-up di successo, la varietà di strumenti tecnologici utilizzati. Tutto vero, ma forse non è il punto.

Il punto è che Obama è riuscito a fare rete intorno a un bouquet di proposte politiche sufficientemente condivise. Non certo nell’ultima settimana, non certo nell’ultimo mese, ma fin dal primo momento della sua scommessa elettorale. Ha messo sul piatto la sua proposta e su questa ha costruito, mattone dopo mattone, una rete sociale. Contenuta, all’inizio, com’è logico. Poi, secondo il più classico degli effetti di scala, cresciuta a dismisura, anche oltre alle aspettative. Ha funzionato, a mio parere, perché la rete sociale è stata non soltanto l’ossatura della campagna elettorale, l’esercito di fan pronti a tutto, bensì il valore fondante della scalata alla Casa Bianca. Quando Obama dice, con l’enfasi di un Ghandi, “tu sei il cambiamento” non cerca soltanto di blandire l’elettore, ma porta la rete sociale fin dentro l’arena politica e rimette le persone nel posto in cui dovrebbero sempre stare. È stato chiaro, convincente, ispiratore, e milioni di persone si sono fatte nel loro piccolo strumento di quel cambiamento. Hanno investito le loro energie e il loro capitale sociale, hanno esteso la rete coinvolgendo la propria rete personale, sono stati protagonisti attivi e non mera manovalanza elettorale.

La campagna di John McCain è stata il classico megafono. Quella di Barack Obama un formicaio, vitale e di successo nella misura in cui vitale e partecipe è stata ogni singola formichina operosa. È il classico ribaltamento di paradigma che sta contagiando tutti i settori nei quali l’intermediazione non è più irrinunciabile, dall’informazione al mercato: ciò che un tempo doveva necessariamente essere incanalato dall’alto per poter raggiungere progressivamente la base della società – la trasmissione delle notizie, la promozione di un marchio, la candidatura di un politico – oggi si riorganizza spontaneamente dal basso e, nei casi più validi e fortunati, si impone all’attenzione generale. Tuttavia la vittoria di Obama sorprende anche i più convinti sostenitori delle dinamiche di rete per lo strabiliante balzo in avanti compiuto da un sistema che si pensava necessitasse di passi contenuti e diluiti nel tempo. Ci sorprende pensare a un leader che conosca a menadito gli strumenti del proprio tempo e non li consideri invece aggeggi futuribili di cui essere aware, consapevole, informato, così come sarebbe stato nel caso di McCain.

Dunque in questo consiste uno dei principali motivi di interesse rispetto all’operato del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America: quanto di tutto ciò influirà sul governo della democrazia di riferimento del mondo occidentale? Quanta “rete” ci sarà nella prossima amministrazione americana? Come sarà declinato il cambiamento a cui un esercito di formiche ha dato forma, ora che il loro leader si trova al vertice della piramide più robusta e inaccessibile della contemporaneità? Come sarà spiegato questo alla consistente fetta di America e di mondo che non ha ancora coscienza di tutto ciò? Quali resistenze incontrerà in un sistema dotato di anticorpi fenomenali per reagire a chi ne minaccia la conservazione, in genere inglobandolo o espellendolo? Rassicura il fatto che per la prima volta a questi livelli il leader non è soltanto un venditore dell’innovazione altrui, ma è lui stesso incarnazione dell’innovazione. Barack Obama è l’espressione di una nuova classe dirigente che ha dimostrato di comprendere perfettamente come sta evolvendo il sistema operativo della società: sapere di avere, per una volta e nella più importante stanza dei bottoni, una persona competente è molto rassicurante.

In Italia già ci si contendono contiguità e adesioni al successo democratico negli Stati Uniti, relegando a turno i propri avversari politici a un’epoca che la vittoria di Obama avrebbe definitivamente superato. Discorsi di un’altra epoca appunto, che però da noi non sembra essere prossima alla svolta. È facile prevedere che la vittoria di Obama farà invece la fortuna dei più scaltri tra i consulenti e i profeti dell’innovazione, a cui frotte di politici tecnologicamente analfabeti si rivolgeranno per imitare l’impresa dell’outsider americano. Saremo sommersi da social network, video, cinguettii e messaggi multicanale. Faremo, come spesso accade, l’imitazione dell’innovazione, in attesa del nostro outsider dotato di sufficiente talento, carisma e cinismo.

Chissà che, dopo un decennio oscuro, l’America non torni a farsi ispirazione. Buon lavoro, Mr. President.

L'autore

  • Sergio Maistrello
    Sergio Maistrello, giornalista professionista, segue da oltre 20 anni l'evoluzione di Internet e le sue implicazioni sull'informazione e sulla società. È docente a contratto di Giornalismo e nuovi media all’Università di Trieste e insegna New media al Master in Comunicazione della Scienza della Sissa.

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