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Breve storia sugli hacker

12 Febbraio 2003

Breve storia sugli hacker

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La vera storia degli hacker raccontata da Eric Raymond: dai Real Programmer in calzini bianchi, giacca, cravatta e occhiali con lenti spesse un dito, che programmavano in Fortran, ai primi veri hacker per come li conosciamo oggi, che iniziarono a operare al MIT all'inizio degli anni '60

Prologo: i Real Programmer

In principio furono i Real Programmer. Non è così che si definirono. Ma neanche “hacker”, o qualcosa in particolare; il nomignolo “Real Programmer” fu coniato solo dopo il 1980. Fin dal 1945, ad ogni modo, la tecnologia informatica ha attirato molte delle menti più brillanti e creative del pianeta. A partire dall’ENIAC di Eckert e Mauchly in avanti, è sempre esistita cultura tecnica più o meno continua e autocosciente di programmatori entusiasti, di persone il cui rapporto col software era di puro divertimento.

I Real Programmer di solito provenivano dai settori dell’ingegneria e della fisica. Indossavano calzini bianchi, camicie e cravatte in poliestere e lenti spesse, programmavano in linguaggio macchina, in FORTRAN e in un’altra mezza dozzina di linguaggi ormai dimenticati. Si tratta dei precursori della cultura hacker, dei ben poco celebrati protagonisti della sua preistoria.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni ’70, nella grande era dei computer a linea di comando e dei mainframe chiamati “big iron”, i Real Programmer dominarono la scena della cultura tecnica dei computer. Alcuni articoli del venerato folklore degli hacker risalgono proprio a quegli anni: la famosa storia di Mel (inclusa nel Jargon File), vari passi di Murphy’s Laws (La legge di Murphy) e il manifesto caricatura tedesco “Blinkenlights” che ancora adorna molte sale di computer.

Molte persone formatesi nella cultura “Real Programmer”, rimasero attive anche negli anni ’90. Si narra che Seymour Cray, progettista della linea di supercomputer Cray, abbia una volta trasportato un intero sistema operativo di sua concezione in un computer di sua creazione. Col sistema ottale e senza un errore. Funzionò tutto alla perfezione. Macho supremo dei Real Programmer.

Su scala minore, Stan Kelly-Bootle, autore di The Devil’s DP Dictionary (McGraw-Hill, 1981) e straordinario folklorista, programmò sul Manchester Mark I nel 1948, il primo computer digitale completamente operativo. Oggi scrive strisce tecnico-umoristiche per riviste di informatica, che spesso hanno il sapore di un energico e complice dialogo con la odierna cultura hacker.

Altri, come David E. Lundstrom, hanno scritto aneddoti su quei primi anni (A Few Good Men From UNIVAC, 1987).

Ciò che, comunque, ebbe origine dalla cultura “Real Programmer”, è lo slancio innovativo che investì il computer interattivo, le università e le reti. Elementi che hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita di una tradizione tecnica che sarebbe sfociata nell’attuale cultura hacker Open Source.

I primi hacker

L’origine della cultura hacker, come oggi la conosciamo, può essere fatta risalire al 1961, anno in cui il MIT acquistò il primo PDP-1. Il comitato Signals and Power del Club Tech Model Railroad del MIT, adottò la macchina quale prediletto giocattolo-tecnologico creando strumenti di programmazione, linguaggi e quell’intera cultura che ancora oggi ci appartiene in modo inequivocabile. Questi primi anni sono stati esaminati nella prima parte del libro Hackers di Steven Levy (Anchor/Doubleday, 1984).

La cultura informatica del MIT sembra essere stata la prima ad adottare il termine “hacker”. Gli hacker della TMRC divennero il nucleo dell’Artificial Intelligenge Laboratory (Laboratorio di Intelligenza Artificiale) del MIT, il principale centro di ricerca AI (Intelligenza Artificiale) su scala mondiale, nei primi anni ’80. La loro influenza si protrasse ben oltre il 1969, il primo anno di ARPAnet.

ARPAnet è stata la prima rete transcontinentale di computer ad alta velocità. Ideata e realizzata dal Ministero della Difesa statunitense come esperimento nelle comunicazioni digitali, crebbe fino a diventare un collegamento tra centinaia di università, esponenti della difesa e laboratori di ricerca. Permise a tutti i ricercatori, ovunque essi si trovassero, di scambiarsi informazioni con velocità e flessibilità senza precedenti, dando un forte impulso allo sviluppo del lavoro di collaborazione e accelerando enormemente il ritmo e l’intensità del progresso tecnologico.

Ma ARPAnet fece anche qualcos’altro. Le sue autostrade elettroniche misero in contatto gli hacker di tutti gli Stati Uniti e questi, finora isolati in sparuti gruppi, ognuno con la propria effimera cultura, si riscoprirono (o reinventarono) nelle vesti di vera a propria tribù di rete.

Le prime intenzionali azioni di hackeraggio – i primi linguaggi caratteristici, le prime satire, i primi dibattiti autocoscienti sull’etica hacker – tutto questo si propagò su ARPAnet nei suoi primi anni di vita. (Basti come esempio la prima versione del Jargon File, datato 1973.) La cultura hacker mosse i primi passi nelle università connesse alla Rete, in particolar modo (ma non esclusivamente) nei loro dipartimenti di scienza informatica.

Dal punto di vista culturale, l’AI (Intelligenza Artificiale) Lab del MIT è da considerarsi il primo tra laboratori di pari natura a partire dai tardi anni ’60. Anche se istituti come il Laboratorio di Intelligenza Artificiale dell’Università di Stanford (SAIL) e, più tardi, l’Università Carnegie-Mellon (CMU), divennero in seguito quasi altrettanto importanti. Tutti costituivano fiorenti centri di scienza dell’informazione e ricerca sull’intelligenza artificiale. Tutti attiravano individui brillanti che contribuirono al grande sviluppo del mondo degli hacker, sia dal punto di vista tecnico che folkloristico.

Per comprendere ciò che successe dopo, comunque, è necessario un ulteriore sguardo ai computer stessi, poiché sia la nascita del Laboratorio che il suo futuro declino furono fortemente influenzati dalle correnti di cambiamento nell’ambito della tecnologia informatica.

Fin dai giorni del PDP-1, le sorti dell’hacking si intrecciarono alla serie di minicomputer PDP della Digital Equipment Corporation (DEC). La DEC aprì la strada a prodotti interattivi di stampo commerciale ed a sistemi operativi time-sharing. La flessibilità, la potenza e la relativa economicità di queste macchine, portarono molte università al loro acquisto.

L’economicità dei sistemi time-sharing, costituì l’habitat ideale per lo sviluppo della cultura hacker e anche ARPAnet fu costituita, per la maggior parte della sua durata, da una rete di macchine DEC.

La più importante fra queste fu il PDP-10 che fece la sua comparsa nel 1967. Essa rappresentò la macchina preferita dagli hacker per quasi quindici anni; il TOPS-10 (sistema operativo DEC per la macchina) e il MACRO-10 (suo assemblatore), sono ancora ricordati con passione nostalgica nell’ambito della cultura hacker.

Il MIT, pur utilizzando lo stesso PDP-10, imboccò una strada lievemente diversa; rifiutò il software DEC del PDP-10 scegliendo di creare un proprio sistema operativo, il leggendario ITS.

ITS stava per “Incompatible Timesharing System”, (Sistema Time-Sharing Incompatibile), sigla che rendeva perfettamente l’idea delle intenzioni insite nel progetto: volevano fare a modo loro. Fortunatamente per tutti noi, la gente della MIT possedevano un grado di intelligenza in grado di contrastare la sua arroganza. L’ITS, strambo, eccentrico e a volte perfino pieno di difetti, portò tuttavia una brillante serie di innovazioni tecniche, e ancora detiene senza dubbio il record di sistema operativo time-sharing più a lungo utilizzato.

Lo stesso ITS fu scritto in Assembler, ma molti progetti ITS furono scritti nel linguaggio LISP dell’AI. Il LISP si rivelò il più potente e flessibile linguaggio dell’epoca e, a distanza di vent’anni, si presenta ancora meglio congegnato rispetto a molti dei linguaggi odierni. Il LISP permise agli hacker di ITS di dare libero sfogo a tutta la loro creatività. Fu forse questa la formula del successo straordinario di questo linguaggio, che resta uno dei preferiti dagli hacker.

Molte creazioni tecniche della cultura ITS, sopravvivono ancora oggi; l’editor Emacs è forse il più conosciuto. Così come molto del folklore ITS è tuttora “vivo” per gli hacker, come dimostra il Jargon File.

Non si può certo dire che il SAIL e il CMU si fossero nel frattempo assopiti. Molti nuclei di hacker, sviluppatisi intorno al PDP-10 del SAIL, divennero più tardi figure chiave nel progresso dei personal computer e delle interfacce di software finestra/icona/mouse, come oggi le conosciamo. Gli hacker di CMU, dal canto loro, stavano portando avanti ciò che avrebbe dato vita alle prime applicazioni pratiche su larga scala di sistemi esperti e di robotica industriale.

Un altro luogo che ha giocato un ruolo fondamentale per il progresso culturale fu lo Xerox PARC, il famoso Centro Ricerche di Palo Alto. Per più di un decennio, a partire dai primi anni ’70 fino alla metà degli ’80, il PARC produsse un’impressionante quantità di innovazioni hardware e software. Le moderne interfacce di software costituite da mouse, finestre e icone, videro la luce proprio in quell’ambito, ma anche le stampanti laser e la local area network (LAN). La serie PARC di macchine D, anticipò di un decennio i potenti personal computer degli anni ’80. Purtroppo, questi profeti non ebbero né onori né gloria in seno alla loro azienda e presto diventò un’abitudine descrivere sarcasticamente il PARC come un luogo caratterizzato dallo sviluppo di brillanti idee per chiunque altro, tranne che per se stessi. L’influenza di queste menti sulla cultura hacker fu comunque a dir poco pervasiva.

Le culture ARPAnet e PDP-10 crebbero in forza e varietà nell’arco degli anni ’70. I programmi per le mailing list elettroniche, utilizzati fino ad allora per incoraggiare la cooperazione tra i diversi gruppi di interesse disseminati a quattro angoli del mondo, furono sempre più impiegati per scopi sociali e ricreativi. DARPA chiuse deliberatamente un occhio di fronte alle attività tecniche “non-autorizzate”, ben comprendendo come queste spese extra fossero un piccolo prezzo da pagare rispetto all’effetto di convogliare l’attenzione di un’intera generazione di menti giovani e brillanti alla causa dell’informatica.

Probabilmente, la più nota delle mailing list a sfondo “sociale” di ARPAnet fu la SF-LOVERS, per gli appassionati di fantascienza; basti pensare che ancora oggi essa continua ad esistere in “Internet”, l’erede naturale e senza confini della rete ARPAnet. In questo scenario, si contano numerosi altri pionieri di questo stile di comunicazione che più tardi venne commercializzato in servizi time-sharing a pagamento come CompuServe, Genie e Prodigy.

La nascita di Unix

Nel frattempo, comunque, nel selvaggio New Jersey, qualcos’altro era stato messo in cantiere fin dal 1969, qualcosa che avrebbe inevitabilmente adombrato la tradizione del PDP-10. L’anno di nascita di ARPAnet, fu anche l’anno in cui un hacker dei Laboratori Bell, di nome Ken Thompson, inventò il sistema Unix.

Thompson si era trovato coinvolto nella fase di sviluppo di un Sistema Operativo Time-Sharing chiamato Multics, che divideva la propria discendenza con ITS. Multics costituì un importante banco di prova su come la complessità di un sistema operativo potesse essere celata fino a essere resa invisibile all’utente e perfino alla maggioranza dei programmatori. L’idea fu quella di rendere l’uso di Multics molto più semplice e programmabile in modo da permettere di operare anche dall’esterno.

I Laboratori Bell si tirarono fuori dal progetto quando Multics iniziò a mostrare segni di crescita non giustificata (il sistema fu poi commercializzato da Honeywell, senza successo). Ken Thompson cominciò ad avere nostalgia dell’ambiente Multics, e pensò di giocare un po’ miscelando alcune caratteristiche del sistema operativo naufragato con altre di sua concezione su un rottame di DEC PDP-7.

Un altro hacker, di nome Dennis Ritchie, inventò un nuovo linguaggio chiamato “C”, da usare con una versione Unix di Thompson ancora allo stato embrionale. Come Unix, C fu progettato per essere piacevole e facile da usare oltre che flessibile. L’interesse per questi strumenti non tardò a crescere nell’ambito dei Laboratori Bell, e subì un’impennata nel 1971 quando Thompson e Ritchie vinsero un appalto per produrre quello che oggi chiameremmo sistema di office-automation per uso interno. Ma Thompson e Ritchie avevano in mente qualcosa di ben più ambizioso.

Per tradizione, i sistemi operativi erano stati, fino ad allora, scritti in Assembler in modo da ottenere la maggiore efficienza possibile dalle macchine host. Thompson e Ritchie furono tra i primi a capire che la tecnologia dell’hardware e dei compilatori aveva raggiunto un tale livello di maturità da poter scrivere in C un intero sistema operativo: nel 1974 l’intero ambiente operativo era regolarmente installato su numerose macchine di diversa tipologia.

Si tratta di un evento senza precedenti e le implicazioni che ne derivarono furono enormi. Se davvero Unix poteva presentare la stessa interfaccia e le stesse funzionalità su macchine di diverso tipo, era sicuramente in grado di fungere da ambiente software comune per tutte. Gli utenti non avrebbero mai più dovuto pagare per nuovi software appositamente progettati ogni volta che una macchina diventava obsoleta. Gli hacker erano in grado di utilizzare gli stessi strumenti software da una macchina all’altra, piuttosto che dover reinventare l’equivalente di fuoco e ruota ogni volta.

Oltre alla portabilità, Unix e C presentavano altri punti di forza. Entrambi si basavano sulla filosofia “Keep it simple, stupid!” letteralmente “Semplifica, stupido!”. Un programmatore poteva senza difficoltà tenere a mente l’intera struttura logica di C (a differenza di molti altri linguaggi precedenti, ma anche successivi), e non dover più ricorrere continuamente ai manuali. Unix era un insieme flessibile di semplici strumenti che si mostravano complementari l’un l’altro.

Questa combinazione si rivelò adatta per una vasta gamma di operazioni, incluse alcune completamente nuove, non previste in origine dagli stessi progettisti. La sua diffusione in AT&T fu estremamente rapida, a dispetto della mancanza di programmi di supporto formale. Entro il 1980, il suo uso si era già allargato a un gran numero di università e siti di ricerca informatica, e centinaia di hacker la consideravano come la propria casa.

Le macchine da lavoro della prima cultura Unix furono i PDP-11 e il loro discendente fu il VAX. Ma, proprio per la sua caratteristica portabilità, Unix funzionava senza alcuna modifica su una vasta gamma di macchine che costituivano ARPAnet. Nessuno usava l’Assembler, i programmi creati in C erano facilmente utilizzabili su tutte queste macchine.

Unix aveva persino una propria rete non certo di qualità eccelsa: Unix-to Unix Copy Protocol (UUCP), bassa velocità, poco affidabile ma economica. Due macchine Unix qualsiasi potevano scambiarsi posta elettronica point-to-point attraverso le ordinarie linee telefoniche. Questa funzionalità era parte integrante del sistema e non solo un’opzione. Le postazioni Unix cominciarono a formare una rete a se stante, e una cultura hacker iniziò a crescere al suo interno. È del 1980 la prima Usenet board, che sarebbe rapidamente diventata più grande di ARPAnet.

ARPAnet stessa ospitò alcuni siti Unix. PDP-10 e le culture Unix e cominciarono a incontrarsi e fondersi, anche se, dapprima, senza grande successo. Gli hacker di PDP-10 consideravano la gente di Unix come una banda di principianti che utilizzava strumenti dall’aspetto primitivo, se paragonati alla squisita e perfino barocca complessità di LISP e ITS. “Coltelli di pietra e pelli d’orso!” brontolavano.

Ecco allora che si delineò un terzo scenario. Il primo personal computer fu immesso sul mercato nel 1975. La Apple fu fondata nel 1977, e il suo progresso avvenne con impressionante rapidità negli anni che seguirono. Il potenziale dei microcomputer era ormai chiaro e attrasse inevitabilmente un’altra generazione di giovani e brillanti hacker. Il loro linguaggio era il BASIC, talmente primitivo che i partigiani del PDP-10, e gli aficionados di Unix lo considerarono subito indegno di qualsiasi considerazione.

La fine del tempo che fu

Ecco la situazione nel 1980: tre culture, simili ma organizzate intorno a diverse tecnologie. La cultura ARPAnet/PDP-10 sposata a LISP, MACRO, TOPS-10 e ITS. Il popolo di Unix e C, con i loro PDP-11, VAX e connessioni telefoniche di modesta entità. E infine un’orda anarchica di appassionati dei primi microcomputer, decisi a portare al popolo la potenza del computer.

Tra tutte queste, la cultura ITS poteva ancora rivendicare il posto d’onore. Ma sul Laboratorio si stavano addensando nubi minacciose. La tecnologia PDP-10 dipendente da ITS, cominciava a essere datata e il Laboratorio stesso era diviso in fazioni fin dai primi tentativi di commercializzazione della tecnologia AI. Alcune delle migliori menti del Laboratorio (e di SAIL e CMU), si erano lasciate attirare da lavori molto ben retribuiti presso società di nuova costituzione.

Il colpo di grazia fu inferto nel 1983, quando DEC cancellò la sua adesione al PDP-10 per concentrarsi sulle linee VAX e PDP-11. ITS non aveva più un futuro. In virtù della sua scarsa portabilità, infatti, l’idea di trasportarlo da un hardware all’altro era impensabile per chiunque. La variante funzionante su Unix di Berkeley VAX, divenne il sistema prediletto dagli hacker, e chiunque avesse rivolto lo sguardo al futuro, si sarebbe reso conto di quanto rapidamente crescesse la potenza dei microcomputer e con quale velocità avrebbero spazzato via tutto quello che li aveva preceduti.

Fu all’incirca in questo periodo che Levy scrisse Hackers. Una delle sue principali fonti di informazione fu Richard M. Stallman (inventore di Emacs), una figura chiave del Laboratorio e accanito oppositore della commercializzazione della tecnologia del Laboratorio.

Stallman (meglio conosciuto con le sue iniziali e login name, RMS), creò la Free Software Foundation, dedicandosi alla produzione di free software di alta qualità. Levy lo elogiò quale “ultimo vero hacker”, una descrizione che si rivelò fortunatamente errata.

Il grandioso progetto di Stallman riassunse chiaramente la transizione che subì la cultura degli hacker nei primi anni ’80: nel 1982 egli iniziò la costruzione di un intero clone di Unix, scritto in C e disponibile gratuitamente. Si può quindi dire che lo spirito e la tradizione di ITS furono preservati come parte importante della più nuova cultura hacker, incentrata su Unix e VAX.

Sempre in quello stesso periodo, la tecnologia dei microchip e della local area network iniziarono a fare presa sul mondo degli hacker. Ethernet e il microchip Motorola 68000 costituirono una combinazione teoricamente molto potente e solo dopo numerosi tentativi si arrivò alla prima generazione di ciò che oggi conosciamo come workstation.

Nel 1982, un gruppo di hacker Unix di Berkeley, fondò Sun Microsystems con la convinzione che Unix funzionante su un hardware con base 68000, relativamente economico, sarebbe stata la combinazione vincente per una grande varietà di applicazioni. La previsione si rivelò esatta e la loro intuizione definì il modello che l’intera industria avrebbe seguito. Sebbene i loro prezzi non erano ancora alla portata della maggior parte degli utenti, le workstation erano relativamente economiche per università e grandi aziende. Reti formate da questa nuova generazione di computer (uno per utente), sostituirono rapidamente gli ormai sorpassati VAX e altri sistemi time-sharing.

L’era del free Unix

Quando nel 1984 la AT&T iniziò ad essere svenduta e Unix divenne per la prima volta un prodotto commerciale, il mondo degli hacker si divideva in una “network nation”, relativamente coesiva e centrata su Internet e Usenet, in cui venivano per lo più usati minicomputer o workstation funzionanti con Unix, e una vasta ma disorganizzata “hinterland” di appassionati di microcomputer.

La classe di macchine workstation costruite da Sun e da altri, aprì nuovi orizzonti agli hacker. Queste erano concepite per realizzare grafica di livello professionale e trasferire e gestire dati condivisi attraverso una rete. Nel corso degli anni ’80, il mondo degli hacker si mostrò attento alle sfide di software e strumenti per sfruttare al massimo queste caratteristiche. Il gruppo Unix di Berkeley sviluppò un supporto integrato per i protocolli ARPAnet che offriva una soluzione al problema delle reti favorendo un’ulteriore crescita di Internet.

Numerosi furono i tentativi di semplificare l’uso degli strumenti di grafica delle workstation. Il sistema che prevalse fu l’X Window System. Uno dei fattori che determinarono il suo successo fu dato dalla disponibilità dei suoi sviluppatori a fornire gratuitamente i sorgenti, secondo l’etica hacker, e a distribuirli tramite Internet. La vittoria di X sui sistemi di grafica proprietari (incluso quello offerto dalla stessa Sun), fu un’importante messaggio di cambiamento che, pochi anni dopo, avrebbe profondamente influenzato lo stesso Unix.

La rivalità tra ITS e Unix generava ancora qualche occasionale manifestazione di collera faziosa (per lo più proveniente dalla parte dei sostenitori dell’ex-ITS). L’ultima macchina ITS cessò comunque di funzionare per sempre nel 1990. I suoi partigiani si ritrovarono senza più un posto dove stare e furono in larga parte assimilati dalla cultura Unix non senza lamentele.

Nell’ambito degli hacker della rete, la grande rivalità negli anni ’80 era tra i sostenitori della versione Unix di Berkeley e quella di AT&T. Sono ancora oggi reperibili copie di un manifesto di quel periodo che riportava un combattente, in stile cartoon, con ali a forma di X, preso in prestito dal film Guerre Stellari, in fuga da una Death Star (stella morta) in esplosione contrassegnata dal logo AT&T. Gli hacker di Berkeley amavano vedersi come i ribelli contro i crudeli imperi aziendali. La versione Unix di AT&T non riuscì mai a competere sul mercato con il concorrente BDS/Sun, sebbene si aggiudicò la guerra degli standard. Nel 1990, le versioni AT&T e BSD divennero difficili da distinguere avendo l’una adottato molte innovazioni dell’altra e viceversa.

Agli inizi degli anni ’90, la tecnologia delle workstation del decennio precedente cominciava a vedersi seriamente minacciata da nuovi personal computer, a basso costo e dalle alte prestazioni, basati sul chip Intel 386 e i suoi discendenti.

Per la prima volta, ogni singolo hacker poteva finalmente permettersi di disporre anche a casa di macchine paragonabili, per potenza e capacità di memoria, ai minicomputer di un decennio prima, macchine Unix in grado di supportare un ambiente di sviluppo completo e di comunicare con Internet.

In questo nuovo scenario, il mondo MS-DOS rimase beatamente allo scuro degli sviluppi in corso. Nonostante le fila degli appassionati di microcomputer della prima ora si ingrandirono rapidamente fino a diventare una popolazione di hacker DOS e Mac di dimensioni ancora maggiori rispetto alla cultura “network nation”, essi non riuscirono mai a sviluppare una cultura consapevole. Il ritmo dei cambiamenti era talmente veloce che ben cinquanta diverse culture tecniche nacquero e cessarono di esistere con la rapidità di una farfalla, senza mai raggiungere la stabilità necessaria allo sviluppo di un gergo, di un folklore e di una storia propri. L’assenza di una rete realmente pervasiva, paragonabile a UUCP o a Internet, non permise loro di diventare una network nation. Il crescere degli accessi a servizi commerciali online, come CompuServe e Genie, ma parallelamente la non diffusione in bundle di strumenti di sviluppo per sistemi operativi non-Unix, significava poco materiale su cui lavorare. Questa situazione impedì lo svilupparsi di una tradizione di collaborazione tra gli hacker.

La corrente hacker più importante, (dis)organizzata intorno a Internet, e finora largamente identificata con la cultura tecnica di Unix, non era interessata ai servizi commerciali. I suoi adepti volevano solo strumenti migliori e più Internet, cose che l’economico PC a 32-bit promise di mettere alla portata di tutti.

Ma dov’era il software? Le macchine Unix commerciali restavano comunque costose. Nei primi anni ’90, numerose società fecero una prova vendendo porting di Unix BDS o AT&T per macchine PC. Il successo si rivelò elusivo, i prezzi non erano scesi di molto e (ancora peggio) non si ottenevano sorgenti modificabili e ridistribuibili per il proprio sistema operativo. Il tradizionale modello di software-business non stava affatto fornendo agli hacker ciò che volevano.

Neanche con la Free Software Foundation la situazione migliorò. Lo sviluppo di HURD, il tanto sospirato kernel Unix gratuito per hacker promesso da RMS, rimase fermo per anni e non riuscì a produrre alcunché di utilizzabile fino al 1996 (sebbene dal 1990 la FSF avesse fornito quasi tutti gli altri complicati componenti di un sistema operativo simile a Unix).

Ciò che dava davvero motivo di preoccupazione era che, con l’inizio degli anni ’90, si cominciava a vedere con chiarezza come dieci anni di tentativi di commercializzare Unix stessero dopotutto fallendo. La promessa di Unix, di rendere portabili le cross-platform si perse tra mezza dozzina di versioni proprietarie di Unix. I detentori di Unix proprietario diedero prova di tanta lentezza e inettitudine nel campo del marketing, che Microsoft fu in grado di inglobare la maggior parte della loro fetta di mercato con la tecnologia del sistema operativo Windows, incredibilmente inferiore a quella Unix.

Nei primi mesi del 1993, qualsiasi osservatore pessimista avrebbe avuto tutti i motivi per decretare l’imminente fine della storia di Unix e della fortuna della sua tribù di hacker, cosa tra l’altro predetta sin dai tardi anni ’70 a intervalli regolari di 6 mesi.

In quei giorni, era pensiero comune la fine dell’era del tecno-eroismo individuale e che l’industria del software e la nascente Internet sarebbero state dominate da colossi come Microsoft. La prima generazione di hacker Unix sembrava invecchiata e stanca (il gruppo di Ricerca della Scienza Informatica di Berkeley chiuse i battenti nel 1994). Il periodo non era tra i più felici.

Fortunatamente, ci furono cose che sfuggirono all’attenzione della stampa specializzata e perfino alla maggior parte degli hacker, cose che avrebbero prodotto sviluppi positivi verso la fine del 1993 e l’inizio del 1994.

In futuro, questa situazione avrebbe portato la cultura a imboccare una strada completamente nuova, disseminata di insperati successi.

I primi free Unix

Dal gap provocato dal fallimento dell’HURD, era emerso uno studente dell’Università di Helsinki di nome Linus Torvalds. Nel 1991, cominciò a sviluppare un kernel free Unix per macchine 386 usando un kit di strumenti della Free Software Foundation. Il suo rapido successo nella fase inizale, attrasse molti hacker di Internet, volonterosi di aiutarlo nello sviluppo del suo Linux, una versione Unix con sorgenti interamente free e redistribuibili.

Anche Linux aveva i suoi concorrenti. Nel 1991, contemporaneamente ai primi esperimenti di Linus Torvald, William e Lynne Jolitz stavano sperimentando il porting di Unix BSD sul 386. La maggior parte di coloro che paragonavano la tecnologia BSD agli sforzi iniziali di Linus, si aspettavano che i porting di BSD diventassero i più importanti free Unix su PC.

La caratteristica fondamentale di Linux, tuttavia, non era tanto tecnica quanto sociologica. Fino allo sviluppo di Linux, era pensiero comune che qualsiasi software complicato come un sistema operativo, dovesse essere sviluppato in modo attentamente coordinato da un ristretto gruppo di persone ben collegate tra di loro. Questo modo di operare era, ed è tuttora, tipico sia del software commerciale che delle grosse cattedrali di freeware costruiti dalla Free Software Foundation negli anni ’80; così come dei progetti freeBSD/netBSD/OpenBSD, che allargarono il campo di applicazione del porting originale 386BSD dei Jolitz.

Linux si evolse in modo completamente differente. Fin quasi dalla sua nascita, fu casualmente “preda di hacking” da parte di un vasto numero di volontari collegati solo tramite Internet. La qualità fu mantenuta non da rigidi standard o autocrazia, ma dalla strategia semplice e naive di proporre settimanalmente delle idee e di ricevere opinioni in merito da centinaia di utenti ogni giorno, creando una sorta di rapida selezione darwiniana sulle modifiche introdotte dagli sviluppatori. Con stupore da parte di quasi tutti, il progetto funzionava piuttosto bene.

Verso la fine del 1993, Linux fu in grado di competere per stabilità e affidabilità, con molti Unix commerciali, ospitando una grande quantità di software. Esso stava perfino cominciando ad attirare il porting di applicazioni software commerciali. Un effetto indiretto di questo sviluppo, fu lo spazzare via la maggior parte dei piccoli fornitori di Unix commerciali – la loro caduta fu anche determinata dalla mancanza di hacker e potenziali utenti ai quali vendere. Uno dei pochi sopravvissuti, BSDI (Berkeley System Design, Incorporated), fiorì offrendo sorgenti completi, con il suo Unix base BSD, e coltivando stretti legami con la comunità hacker.

All’epoca tali sviluppi non furono pienamente rilevati dalle comunità hacker e non lo furono affatto al di fuori di essa. La tradizione hacker, a dispetto delle ripetute predizioni su una sua imminente fine, stava proprio iniziando a riorganizzare il mondo del software commerciale a propria immagine. Trascorsero ancora cinque anni prima che questa tendenza iniziasse a palesarsi.

La grande esplosione del Web

L’iniziale crescita di Linux coincise con un altro fenomeno: la scoperta di Internet da parte del grande pubblico. I primi anni ’90 videro l’inizio di una fiorente industria dell’Internet provider, che forniva connessioni al pubblico per pochi dollari al mese. Dopo l’invenzione del World Wide Web, la già rapida crescita di Internet accelerò a rotta di collo.

Nel 1994, anno in cui il gruppo di sviluppo Unix di Berkeley chiuse ufficialmente i battenti, molte diverse versioni di free Unix (Linux e i discendenti del 386BSD) catalizzarono l’interesse degli hacker. Linux era distribuito su CD-ROM, e andava via come il pane. Alla fine del 1995, le maggiori aziende informatiche cominciarono a promuovere i propri hardware e software giocando la carta della loro grande compatibilità con Internet!

Nella seconda metà degli anni ’90, l’attività degli hacker si incentrò sullo sviluppo di Linux e sulla diffusione di massa di Internet. Il World Wide Web era riuscito a trasformare Internet in un mezzo di comunicazione di massa, e molti hacker degli anni ’80 e ’90, intrapresero l’attività di Internet Service Provider fornendo accesso a questo nuovo mondo.

La diffusione di massa di Internet, aveva perfino portato la cultura hacker ad essere rispettata in quanto tale. Nel 1994 e 1995, l’attivismo hacker fece naufragare la proposta Clipper che avrebbe posto sotto il controllo del governo un metodo di codifica. Nel 1996, gli hacker si mobilitarono per sconfiggere il “Communications Decency Act” (CDA), e scongiurare il pericolo di censura su Internet.

Con la vittoria sul CDA, si arriva ai giorni nostri, periodo in cui chi scrive diviene attore e non solo osservatore. Questa narrazione continua con “La vendetta degli Hacker”.

Tutti i governi sono, chi più chi meno, coalizioni contro il popolo…e siccome i governanti non hanno maggiore virtù dei governati…il potere del governo può essere mantenuto nei propri confini costituiti dalla presenza di un potere analogo, il sentimento congiunto del popolo.

— Benjamin Franklin Bache,
in un editoriale del Philadelphia Aurora, 1794

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L'autore

  • Eric S. Raymond
    Eric Steven Raymond, spesso citato con le sue iniziali ESR, è da sempre vicino alla cultura open source e alla comunità hacker di cui ha ideato il simbolo rappresentativo, il Glider. Il suo lavoro ha contribuito all'affermazione del modello open source ed è stato importante per lo sviluppo di Linux e di Internet. È il manutentore del Jargon File, da molti conosciuto come "Il nuovo dizionario degli hacker".

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