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Aziende online: come si cambia per non morire

17 Luglio 2013

Aziende online: come si cambia per non morire

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Tra la scrittura e i cambiamenti anche radicali che le realtà commerciali devono affrontare, la voce di un protagonista.

Giornalista di talento e anche comunicatore capace di accompagnare l'azienda a rapportarsi correttamente con i media online, Daniele Chieffi ha risposto alle nostre curiosità all'indomani del successo di State of the Net 2013.

Come è andata a Trieste? Che cosa vuoi tenere e che cosa migliorare per la prossima edizione?

Quale altra occasione ti regala divertenti serate fra amici, l’incontro con un giocatore dell’NBA e la possibilità di parlare faccia a faccia con Doc Searls? Non c’è nulla da cambiare, la formula funziona e il trasferimento di cultura, che deve essere il vero obiettivo di un evento come questo, è intenso ed efficiente. Ma migliorare si può, sempre. Lancio una proposta: State of the Net diventi l’evento di chiusura di un ciclo che si svolge, con incontri verticali dal punto di vista degli argomenti, in giro per l’Italia, anche all’interno di altri contenitori ed eventi. Minimoduli brandizzati State of the Net, fortemente “socializzati” via web, che raccolgano anche temi ed esigenze da affrontare a Trieste.

Leggiamo che La complessità in azienda risiede più al proprio interno che nella gestione della nuova relazione, sempre più necessaria, con i propri clienti. A noi pare, forse malignamente, che le aziende siano poco preparate, poco consapevoli e anche un po’ malfidenti verso i propri dipendenti quando si tratta di nuove relazioni. È complessità o essere rimasti indietro un giro? Quale è stata la tua esperienza?

Le aziende sono strutture rigide, resistenti al cambiamento per definizione. Organizzate per massimizzare il profitto secondo un modello consolidato, lo modificano solo se percepiscono il valore economico del cambiamento. La rivoluzione imposta dalla digitalizzazione è stata più profonda e veloce di quella causata dal vapore per i grandi viaggi oceanici. Allora i tempi si ridussero a un decimo, scomparve tutta la marineria addetta alle vele per essere soppiantata da macchinisti, fuochisti eccetera. E gli armatori? Iniziarono a costruire nuove navi semplicemente perché conveniva. Le aziende sono ancora organizzate per le traversate a vela ma stanno iniziando a capire che conviene passare al vapore. La velocità di questo cambiamento ha colto però tutti di sorpresa e oggi le aziende devono chiedere a molti loro dipendenti, abituati a issare le vele, di trasformarsi in fuochisti e macchinisti, non più su velieri ingombri di cime e bitte ma su navi di metallo, mosse da grandi e sconosciuti motori. Dall’altra parte, i loro processi produttivi sono organizzati per realizzare navi in legno, con sartiame e vele, ma si trovano improvvisamente a dover mettere in piedi piroscafi in acciaio, con eliche e fumaioli. In queste condizioni, che si fidino poco dei loro dipendenti è abbastanza normale e che questi resistano al cambiamento è altrettanto scontato. Che poi tutto questo metta in crisi i modelli organizzativi è certo come che domani sorga il sole e la mia esperienza lo conferma in pieno.

Proseguendo con la domanda precedente, quante aziende scelgono un responsabile di comunicazione consapevolmente e quante invece convinte che uno specialista risolva il problema così da poter tornare al business di prima come prima?

Questa domanda ne contiene una nascosta: se le aziende credano al web come a una bolla che prima o poi scoppierà. È come se avessero pensato, per tornare all’esempio, che dopo il vapore le navi torneranno alle vele. La girandola di professionisti sulle sedie che contano della comunicazione aziendale, il fiorire di nuovi ruoli professionali ricercati con ansia dimostrano come vi sia la percezione di una strada senza ritorno, che richiede di attrezzarsi. La consapevolezza è un obbligo manageriale imposto dal mercato: se sei consapevole di quello che sta succedendo intorno e ti attrezzi per affrontarlo, sopravvivi, altrimenti no.

La nuova comunicazione rende necessari cambiamenti agli organigrammi e ai mansionari? Che cosa accade quando in un’azienda si acquisisce consapevolezza della nuova realtà?

Una sorta di fenomenologia hegeliana. Da una parte la tesi: il nuovo che avanza e chiede cambiamenti profondi e dolorosi di modelli organizzativi, gerarchie e stratificazioni di potere interne. Dall’altra l’antitesi: la conservazione e la difesa di tutto ciò rispetto all’attacco percepito. La sintesi: un percorso con vincitori e vinti ma che definisce, alla fine, nuovi modelli organizzativi, nuovi ruoli e nuovi assetti di potere gerarchico. L’azienda non è più la stessa. Questo ovviamente è ancor più valido per settori con modelli industriali fortemente consolidati e storicizzati, qualche esempio? Pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, grandi enti, energetiche, petrolifere, farmaceutiche. C’è un aspetto da sottolineare: più l’azienda è esposta alla concorrenza, più deve essere aggressiva per difendere il proprio mercato, più sarà sensibile al cambiamento e lo cavalcherà con decisione. Più l’azienda è protetta, perché agisce in mercati semimonopolisti, oligarchici, comunque protetti o con domande rigide (dove cioè i clienti sono costretti a comprare indipendentemente dal prezzo e dalla qualità, per esempio i carburanti), più sarà forte la resistenza al cambiamento stesso. La regola è la medesima: si cambia per sopravvivere, solo quando ci si sente minacciati.

Le aziende informatiche coprono l’intero spettro degli approcci alla comunicazione digitale, da Apple la cui presenza social tende a zero, a Microsoft che è invece molto attiva (anche a rischio di incidente diplomatico). Si vede che esiste più di una ricetta, oppure aziende simili per settore e attività hanno alla fine esigenze diverse. Da dove si parte per determinare l’identità aziendale e le relative policy di comunicazione?

In parte ho risposto sopra. Se ti senti minacciato, se vedi le tue quote di mercato erodersi, cambi per contrastare il fenomeno, non certo per motivazioni filosofiche. Se questo non accade, rimani decisamente più conservatore. Le scelte dipendono da alcuni presupposti: come sono percepito, come questa identità mi colloca sul mercato, quanto forti sono i miei competitor, questo insieme di cose minaccia o meno la mia sopravvivenza economica? Per tornare all’esempio, Apple non ha necessità di essere sui social perché l’esclusività, la distanza dai propri stakeholder sono parte della propria immagine. Immagine sostenuta da una reputazione a prova di bomba (sinora). Microsoft è esattamente il contrario. Bistrattata, attaccata, con una reputazione non proprio solidissima e in difficoltà sul mercato, sfrutta ogni strumento possibile per consolidare il legame con i propri interlocutori. Si potrebbe dire che Apple abbia un atteggiamento decisamente più conservatore e Microsoft più aggressivo, per esigenze di difesa. In sintesi, si parte sempre da dove sono e da dove vorrei essere per capire se le due risposte coincidono. Nel caso che non lo facciano, si identifica il key message, l’elemento distintivo dell’azienda verso il mercato e da lì si declina tutto il piano di comunicazione, in maniera coordinata, con l’obiettivo di posizionarsi dove si vuole.

Puoi raccontarci di un bel turnaround, una crisi riassorbita, un risultato di rilievo conseguito da un’azienda grazie a una efficace politica di comunicazione sulla rete e che forse non avrebbe potuto ottenere altrimenti?

Il caso Lego. La casa costruttrice dei celebri mattoncini sviluppò verso la fine degli anni ’90 con il MIT di Boston una linea specifica per costruire, con mattoncini della linea Technic e con meccanismi e controlli elettronici, veri e propri robot comandabili a distanza, il progetto Mindstorms. Sui social nacquero comunità di utenti che modificavano programmazione, progetti e materiali, realizzando e pubblicizzando “prodotti” diversi. Lego, che si stava per attivare per difendere legalmente i propri prodotti, decise saggiamente di coinvolgere quelle stesse persone nelle progettazione, prevedendo ufficialmente che i robot potessero essere liberamente ricostruiti e riprogrammati. Accanto a questo ha iniziato a utilizzare suggerimenti e critiche degli utenti per migliorare i progetti, ha attivato addirittura una struttura di sostegno per chi si voglia cimentare nella riprogrammazione, sino a fornire software open source scritti proprio per modificare la programmazione iniziale. Ogni anno, in collaborazione con gli utenti stessi, Lego organizza eventi internazionali. Da questa dinamica Lego ha imparato per tutto il suo business. Ha messo a disposizione delle community dei suoi utenti un software che permette di creare in 3D il proprio progetto (con i mattoncini tradizionali presenti nel database dell’azienda). Una volta completo, l'azienda realizza la scatola, ci mette tutti i mattoncini necessari, le istruzioni e spedisce il tutto al cliente-creatore. Molti nuovi prodotti nascono così da idee dei clienti. In sintesi, Lego è riuscita a creare un mercato per gli adulti, Mindstorms, grazie ai social, aprendosi alla condivisione e alla collaborazione. Oggi l’azienda è il cuore di una community vasta e coesa, che contribuisce a creare i prodotti che poi comprerà.

Che cosa suggerisci in termini di comunicazione ad aziende con il vissuto e le peculiarità di una casa editrice?

Il Web è una rivoluzione culturale, che si basa su una diversa modalità di diffusione e condivisione della cultura stessa. La missione sociale di una casa editrice è diffondere cultura. Sfruttare il web per onorare la propria missione è una necessità filologica. Gli editori devono quindi diventare protagonisti e motori di un accrescimento e di una divulgazione culturale collettiva e partecipata. Convincere i lettori, in questo senso, è più facile, meno gli autori, perché per far questo è necessario spezzare la monade concettuale del libro, come prodotto immobile e immutabile nel tempo o che segue il tempo, moltiplicandosi. L’autore non deve più scrivere per sé, per il proprio nome in libreria, ma realmente per il lettore, mettendo a disposizione la propria cultura continuativamente, in uno scambio continuo, annullando la distanza dai propri lettori. In buona sostanza deve diventare opinion leader, collaborativo, di una community.

Qual è l’ultimo libro che hai letto? E l’ultima foto scattata?

In genere ne leggo tre alla volta, due saggi e un romanzo. Terminati da poco La vertigine digitale di Andrew Keen (vi annuncio, lo stroncherò presto sul mio blog) e La nazionalizzazione delle masse di Mosse, che in realtà ho riletto. Accanto a questi il bel romanzo di Sandro Bonvissuto Dentro. L’ultimo scatto: al viso segnato dalla fatica e da un immenso sconforto di un operatore di un’ambulanza in un pronto soccorso di Roma. Amo i ritratti, raccontano storie.

 

L'autore

  • Daniele Chieffi
    Daniele Chieffi, si occupa della gestione dei rapporti con i media online per il Gruppo UniCredit. Autore di due libri, svolge attività di formazione sui temi legati alla comunicazione digitale per società, università e scuole di formazione manageriale. È ideatore, animatore e gestore del sito www.olmr.it.

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