L’estate è quasi andata, e il mondo Linux prosegue la sua corsa con la tipica disomogeneità di sempre. Tra le notizie di fine agosto, Wall Street continua a dimostrarsi assai scettica nei confronti del pinguino, mentre Red Hat si conferma di gran lunga la stella tra i distributori mondiali. A riprova del fatto che, comunque vada a finire, la penetrazione dell’open source prosegue in vario modo, pur nei prolungati dubbi degli economisti sull’efficacia del business model incarnato.
Proprio quest’ultima sembra la questione più dibattuta tra gli analisti high-tech della borsa statunitense. “Linux è forse una realtà? Si,” spiegano all’agenzia T. Rowe Price, affrettandosi però ad aggiungere: “Potrà generare sufficienti entrate da giustificare le recenti sopravvalutazioni del mercato? Probabilmente no, ed è questa la ragione per cui la gente ha smesso di investire in aziende Linux.” In effetti l’andazzo pare aver preso questa piega. Tra gli azionisti di VALinux, ad esempio, oggi si contano soltanto 24 società d’investimento, tra le diverse migliaia operanti sul mercato, mentre 35 sono quelle che tuttora vantano titoli di Red Hat. Come raffronto, Ariba, software house per Internet, ne vanta 158, mentre 132 sostengono Phone.com (software per cellulari).
Passato il boom dello scorso anno, quando la stessa VALinux guadagnò quasi il 700 per cento nella sola giornata inaugurale in borsa, i grossi investitori hanno preso a disfarsi rapidamente dei titoli. È il caso tra gli altri della Strong Capital di Chicago che ha rivenduto le 3.500 azioni VALinux che possedeva. E il board di Strong Enterprise (857 milioni di capitale) si dichiara “indifferente”, dopo aver osservato da vicino l’attività di Red Hat e VALinux, avendo comunque deciso di restare alla finestra.
“Gran parte del boom borsistico di Linux è nato a ruota del fenomeno dot-com dello scorso anno. Per le startup era decisamente conveniente affidarsi a quel sistema operativo. Ma quando il business si fa serio e necessita di maggior supporto, ecco che l’imprenditoria preferisce tuttora dotarsi di server Sun o WindowsNT.” Così insistono gli esperti dell’agenzia T. Rowe Price, ribadendo come gli stagionati operatori di Wall Street siano ossi ben più duri da convincere dei giovani sviluppatori del giro dorato di Silicon Valley, anch’essi peraltro in netta fase calante.
Larry Augustin, boss di VALinux, ribadisce però che si tratta soltanto di tener duro ancora per un po’: “È essenzialmente di una questione di tempo, dobbiamo dimostrare consistenza nei risultati raggiunti.” Non a caso l’azienda ha incassato oltre 34 milioni di dollari nell’ultimo trimestre, un balzo in avanti del 70 per cento rispetto ai tre mesi precedenti e addirittura del 710 per cento a confronto del medesimo periodo del 1999. La capitalizzazione di mercato ha toccato quota 1,7 miliardi, pur se ancora troppo gonfiata, secondo alcuni, come starebbero a dimostrare i 23 cent ad azione ulteriormente persi nelle scorse settimane.
Sul fronte giornalistico, c’è perfino chi fa notare la prolungata assenza estiva di Mr. Linus Torvalds dalle prime pagine, sostituito da un altro enfant terribile del digitale, Shawn Fanning, creatore di Napster. Stessa sorte per l’attenzione riservata alla kermesse LinuxWorld di metà agosto a San Josè, contrariamente a quanto accaduto la scorsa estate, con un rialzo borsistico delle aziende Linux a seguito della manifestazione pressoché irrisorio. Autunno caldo in vista dunque per il business linuxiano? Pare di sì, anche se (giustamente) i vari distributori proseguono imperterriti per la loro strada.
Un recente studio diffuso da International Data Corporation riporta che nel 1999 il mercato Linux è cresciuto dell’89 per cento. Di tale quota, Red Hat ne ha coperto il 48 per cento tramite la vendita della propria versione del sistema, distanziando nettamente gli altri cinque maggiori rivali. Di questi, la seconda posizione è coperta dalla tedesca SuSE, con il 15 per cento, mentre a seguire troviamo nell’ordine, Caldera Systems e TurboLinux (ciascuna con il 10 per cento), la francese MandrakeSoft (4 per cento), la canadese Corel (1 per cento) e un manipolo di altre minori con l’11 per cento.
Nonostante il mondo Linux sostenga che obiettivo condiviso da tutti altro non è che rubare spazio agli altri sistemi operativi (modo gentile di insistere con la guerra all’odiata Microsoft), anche la competizione interna pare assai torrida. È un fatto che da tempo Red Hat si sia aggressivamente posizionata come sinonimo di Linux in molti ambiti globali, riuscendo a “fare un lavoro davvero stupendo nell’imporre la propria immagine”, come confermano gli stessi esperti di IDC che hanno condotto la ricerca. Ma se Red Hat rimane la stella indiscussa, va comunque ricordato come sia la truppa compatta dei distributori l’artefice indiscusso di quel 25 per cento del settore server assegnata a Linux da precedenti indagini (pur contro il 38 per cento tuttora detenuto da Windows)
Da notare infine come la suddetta ricerca di IDC prenda in esame soltanto le copie vendute sul mercato, non quelle distribuite o prelevate gratuitamente. Ciò pone tra l’altro seri problemi alle agenzie di marketing, i cui risultati fanno sempre riferimento all’andamento commerciale e non prevedono spazi per “modelli alternativi.” Una strategia che stavolta ha comportato, ad esempio, la non inclusione di dati in qualche modo rilevanti. Infatti il sistema Red Hat viene impiegato tra l’altro nei registratori video digitali prodotti da TiVo, negli elettrodomestici-server di Cobalt Networks e in centinaia di server venduti da VALinux alla Akamai. Ebbene, poiché Red Hat non incassa necessariamente denaro da tali transazioni, l’indagine di IDC non ha neppure preso in considerazione tali dati.
“Talvolta le agenzie di ricerca si trovano di fronte a problemi impossibili da risolvere,” spiegano gli esperti di IDC. “È davvero difficile seguire un andamento uniforme nelle statistiche alla presenza di mercati che operano in maniera totalmente diversa tra loro.” In altri termini, il modello open source mette in crisi perfino gli analisti del marketing. Non a caso IDC prevede di aggiungere quanto prima una nuova tecnica di conteggio, la quale sfocerà in grafici separati dedicati alle copie del software diffuso gratuitamente. In tal modo, restando all’ultima indagine sui distributori Linux, nomi quali Corel, e anche Sun per altri versi, dovrebbero guadagnare alcuni punti. Ma soprattutto, è l’economia del dono tipica del modello open source che avanza per conquistare altri spazi. Checché ne dicano a Wall Street.