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Aspettando il terminale universale

04 Novembre 2003

Aspettando il terminale universale

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Rileggere i fiumi d'inchiostro che negli anni Novanta sono stati versati attorno al concetto di "convergenza" dei media è un esercizio noioso quanto istruttivo: ben pochi degli scenari ipotizzati dai guru della rivoluzione digitale si sono realizzati. Leggi la Prefazione di Carlo Formenti a "Disinformation Technology"

In particolare, non esiste oggi nulla di simile a quel “terminale universale” che avrebbe dovuto riunire in un’unica stazione operativa – o almeno integrare in un’unica rete domestica – tutte le “vecchie” tecnologie di comunicazione: telefono, radio, televisione, computer, videoregistratore, impianto stereo ecc. A smentire la profezia non è stato un imprevedibile rallentamento dell’innovazione, la quale ha marciato se possibile a ritmi ancora più rapidi di quelli allora preventivati. Né si è trattato d’un errore concettuale iscritto nel concetto stesso di multimedialità: l’immensa potenzialità di conversione-integrazione fra strumenti di comunicazione di ogni tipo, associata alla tecnologia digitale, ha trovato in effetti piena conferma. E allora? Il fatto è che quelle profezie trascuravano due variabili fondamentali. La prima: nessuna offerta tecnologica è in grado di creare dal nulla, né tanto meno di indurre dall’esterno, la domanda sociale di determinati prodotti e consumi.

Solo se e quando la società scopre, in risposta a proprie dinamiche autonome, quale uso fare di determinate tecnologie, queste ultime iniziano ad avere concrete possibilità di affermarsi. La seconda: il mercato seleziona a sua volta tecnologie e applicazioni in relazione alla loro capacità di generare profitto. Detto questo, occorre aggiungere che, almeno finora, il solo modo che la società ha scoperto per utilizzare i media digitali consiste nel costruire reti di scambio gratuito di informazioni, notizie, conoscenze e prodotti d’intrattenimento, il che non rappresenta una buona notizia per chi contava di realizzare colossali guadagni grazie all’industria multimediale. Ecco perché la strombazzata convergenza procede a passo di lumaca, in attesa che leggi sul copyright sempre più draconiane stronchino il “socialismo digitale” praticato da milioni di utenti-consumatori. Eppure nell’idea di convergenza era implicito un altro significato che, viceversa, si è dimostrato assolutamente profetico: era cioè implicita l’idea, che viene invece chiaramente esplicitata nel libro che vi apprestate a leggere, secondo cui il sistema dei media si avvia a neutralizzare qualsiasi distinzione fra fiction e informazione.

Quale miglior metafora di tale concetto, se non l’immagine di una “byte sfera” in cui si mescolano, si integrano e si scambiano vicendevolmente codici, linguaggi, generi narrativi, regole di comunicazione che appartenevano ad ambiti originariamente distinti – giornalismo cartaceo, radiofonico e televisivo, spot pubblicitari, cinema, radiodramma, videogioco, serial tv e via discorrendo? Questa è Internet, si dirà. Ma non è vero. Internet, se mai, si caratterizza per usi più “modesti” e “tradizionali”, come la chiacchiera (posta elettronica, instant messaging), lo scambio di testi, la pornografia ecc. Questo è, piuttosto, il punto di arrivo di una mutazione culturale iniziata ben prima dell’avvento della Rete, che ha avuto come protagonisti un po’ tutti i media tradizionali – benché occorra riconoscere che è stata la tv a fare la parte del leone – e consiste nella lenta, progressiva e inesorabile trasformazione dell’informazione in merce di consumo. Niente di nuovo, si dirà.

Nessuna difficoltà ad ammetterlo. Eppure una novità c’è: sta venendo meno anche la condizione che veniva citata come garanzia dell’attendibilità del sistema dei media a prescindere dalla – o se si vuole per merito della – mercificazione del settore, vale a dire la concorrenza. In un mercato caratterizzato dalla concentrazione monopolistica, e nel quale – vedi la fusione AOL-Time Warner – industria dell’informazione e industria dell’entertainment finiscono per divenire una cosa sola, è inevitabile che il giornalista si trasformi in “terminale” di un processo di produzione della notizia che, da un lato, assume sempre i più i connotati della fiction, dall’altro, seleziona i prodotti in relazione all’indice di gradimento – misurato in base ai criteri del marketing – del pubblico. E come se ciò non bastasse, a premere sull’acceleratore della fiction contribuiscono le mutazioni di un potere politico sempre più fondato sul controllo diretto dei media. Nel geniale romanzo “La svastica sul sole”, il grande scrittore di fantascienza Philip K. Dick prevedeva per gli Stati Uniti un destino simile a quello del Terzo Reich, dimostrando come gli americani, per vincere la Seconda Guerra Mondiale, fossero stati costretti a costruire un sistema di mobilitazione permanente delle volontà e delle coscienze che nulla aveva da invidiare alla poderosa macchina propagandistica del nazismo, il che avrebbe inesorabilmente finito per renderli identici al nemico.

Questa tesi era figlia degli anni della Guerra del Vietnam, durante i quali l’opposizione pacifista interna veniva criminalizzata e messa a tacere con ogni mezzo possibile: che cosa avrebbe scritto Dick, se avesse vissuto abbastanza per assistere alla preparazione della Seconda Guerra del Golfo da parte del regime di George Bush? Se avesse potuto vedere il sistema dei media americani impegnato nell’allestimento di un “kolossal” hollywoodiano, realizzato all’unico scopo di “vendere” all’opinione pubblica un’aggressione neocoloniale presentandola come un’eroica battaglia contro il Male Assoluto?

Cosa c’entra tutto ciò con il libro di Stefano Porro e Walter Molino? C’entra perché si tratta di un libro che si occupa dell’ambiguo ruolo che il World Wide Web svolge in questo processo di contaminazione fra fiction e informazione. Ruolo ambiguo perché la Rete viene identificata, di volta in volta, come unico canale di “controinformazione” capace di limitare i danni provocati dalla degenerazione dei “vecchi” media, o come complice – se non addirittura come fattore di accelerazione – del processo degenerativo. Da che parte si schierano gli autori? Da nessuna delle due, nel senso che demistificano giustamente sia la tesi del Web come medium “alternativo” per natura, sia la tesi del Web come nuovo strumento di disinformazione e manipolazione di massa. E poi spiegano giustamente come il punto non sia domandarsi se e in quale misura l’informazione in Rete sia manipolata – ovviamente lo è, come ogni altra informazione – bensì distinguere, per così dire, fra manipolazione “buona” e manipolazione “cattiva”. Insomma: c’è bufala e bufala.

Le “bufale buone”, scrivono Stefano Porro e Walter Molino, sono quelle “costruite ad arte”, quelle che sfruttano la Rete per mettere a nudo i punti di debolezza degli altri media. Una categoria alla quale appartengono, per esempio, le bufale descritte del terzo capitolo: dalle geniali “patacche” che il gruppo neosituazionista Luther Blisset ha rifilato per anni ai media italiani (indotti a diffondere notizie inventate di sana pianta), alla presunta morte di Bill Gates, salpata dalle pagine di Clarence.com per approdare su ben più “nobili” testate, alla sorprendente performance dello studente del MIT che è riuscito a tenere in scacco il buon senso di giornali, televisioni, Webzine e milioni di scandalizzati lettori, confezionando l’improbabile notizia dei Bonsai Kitten (i gattini fatti crescere in vasi di vetro, come pere nelle bottiglie di grappa) ecc. Gli autori spiegano come e perché queste trappole abbiano potuto scattare, in un capitolo dove vengono addirittura elencate le regole auree per confezionare una bufala capace di superare, con relativa facilità, gli standard medi di controllo sull’attendibilità delle fonti applicati nelle redazioni. A consentire simili colpi non sono la stupidità né la mancanza di professionalità dei giornalisti, bensì i ritmi di un processo produttivo che, nella misura in cui risponde sempre più alle regole del marketing ed è organizzato come una catena di montaggio, non ha letteralmente più il tempo di verificare un’enorme massa di informazioni che non vengono più “prodotte” in casa, ma arrivano come “semilavorati” da fonti esterne di ogni tipo (agenzie, altri media, uffici stampa ecc.). Paradossalmente, Internet riesce a “bidonare” gli altri media perché è, al tempo stesso, più lento e più veloce: più lento, nel senso che ha tutto il tempo di riflettere su come e quando colpire, più rapido perché, una volta sferrato il colpo, questo si propaga con la velocità del fulmine, sfruttando i meccanismi di amplificazione generati da una “catena di sant’Antonio” che ignora ogni barriera geografica.

Si potrebbe dire che il passa parola della Rete mette in moto notizie-valanga, che assumono credibilità in ragione della “massa critica” che accumulano in tempi brevissimi. Ma non tutte le bufale partorite da Internet sono dotate “di un’anima o se vogliamo di un’etica”, per usare le parole con cui gli autori difendono il ruolo di certe azioni di destabilizzazione, ideate per svelare la facilità con cui i media tradizionali possono funzionare da strumenti di propaganda e disinformazione. Occorre infatti ricordare che, se la Rete si dimostra efficace per azioni di questo tipo, è perché si tratta di un mezzo che, più di ogni altro, tende a cancellare i confini fra fiction e informazione. La Rete non incarna solo l’intelligenza collettiva (Pierre Lévy), o connettiva che dir si voglia (Derrick De Kerckhove), rappresenta anche una sorta di immane inconscio planetario, un grande Es tecnologico da cui affiorano continuamente sogni e incubi partoriti dall’immaginario di milioni di esseri umani. In altre parole, le bufale in Rete nascono anche “spontaneamente”, come effetti di distorsione prospettica – tanto più potenti in quanto del tutto inconsapevoli – generati dalle paure, dai bisogni, dai desideri e dalle pulsioni che agitano la nostra mente collettiva. Ma se la Rete “mente” – o meglio racconta storie – come tutti gli altri media, perché attribuirle la patente di media “alternativo”?

Proviamo a rispondere alla domanda partendo – come fanno gli autori – dal fenomeno dei blog. I weblog rappresentano una sorta di terza ondata (la prima è stata quella delle Bbs, la seconda quella di gruppi di discussione e mailing list) dell’informazione “autoprodotta” da parte di comunità e singoli utenti delle reti di computer. Si tratta, com’è noto, di diari-giornale online gestiti da singoli individui, o da comunità e gruppi nati attorno a un oggetto di interesse comune (una tecnologia, una battaglia politica o civile, un movimento sociale, un hobby ecc.), che, oltre a mettere a disposizione le competenze specifiche di colui o coloro che gestiscono il sito, funzionano da miniportali, sfruttando il meccanismo dei link per selezionare informazioni ritenute particolarmente rilevanti ai fini di un certo argomento e metterle a disposizione degli utenti. Cosa c’è di diverso da ogni altro sito? In primo luogo, il fatto che i Blog sfruttano una tecnologia che per la prima volta mette anche i non addetti ai lavori (per esempio chi non è in grado di utilizzare il linguaggio Html) in condizione di costruire un proprio giornale online, portando a compimento il processo di “democratizzazione” del media già implicito in strumenti come le mailing e i gruppi di discussione. Poi il fatto che, una volta decollato, il fenomeno dei blog si è sviluppato con una rapidità formidabile, dando vita a una “blogosfera” fatta di milioni di siti, ma soprattutto di un incalcolabile numero di “sinapsi” che collegano fra loro tutti questi siti. Una macchina che ha dimostrato la sua potenza in varie occasioni, consentendo di lanciare poderose campagne di controinformazione e denuncia politica, di mobilitare l’opinione pubblica su temi ignorati dai big media (comprese le testate on line di giornali e canali tv), di organizzare manifestazioni di massa ecc.

Ma non si tratta pur sempre dell’ennesimo canale per “raccontare storie”? Assolutamente sì. Tuttavia, preso atto che non esiste – né mai è esistita – un’informazione che non sia anche e soprattutto narrazione, l’apertura di questo canale autogestito dal basso consente almeno di alimentare un ampio catalogo di storie in un’epoca in cui i vecchi canali offrono ben poca scelta. Chi garantisce la qualità di queste storie? Qui non è cambiato davvero nulla: a fare testo è ancora e sempre il gradimento del pubblico; i blog che funzionano sono quelli la cui attendibilità, autorevolezza, utilità ecc. sono “certificati” dalla comunità degli utenti; se vogliamo, quelli che raccontano le storie più belle e convincenti. Come volevasi dimostrare, c’è bufala e bufala.

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