La Corte Suprema americana, nei giorni scorsi, ha avviato l’esame del CIPA (Children’s Internet Protection Act), nella parte in cui prevede l’obbligo, per le biblioteche pubbliche e le scuole americane di installare, se non vogliono perdere le sovvenzioni loro destinate, filtri – quali per esempio Websense e N2H2 – che consentano di impedire l’accesso, attraverso i loro computer, ai siti Internet che abbiano contenuti riguardanti la pornografia infantile, o giudicati osceni o nocivi per i minori.
Le sovvenzioni federali di questo genere, a partire dal 1999, sono pari a circa un miliardo di dollari e possono rappresentare il 90% del budget delle dotazioni tecnologiche di una biblioteca.
Questa legge, emanata nel dicembre del 2000 ed entrata in vigore il 20 aprile 2001, però, è stata sin da subito contestata da molte associazioni.
In particolare, l’ACLU, un’organizzazione statunitense per la difesa delle libertà e l’American Library Association, che raggruppa tutte le biblioteche americane, già nel 2001 avevano intrapreso un’azione giudiziaria, accusando la legge di violare il primo emendamento della costituzione americana.
Secondo i rappresentanti di queste organizzazioni, l’introduzione di filtri di questo tipo avrebbe costituito un ostacolo alla realizzazione del principale obiettivo delle biblioteche pubbliche, che è quello di mettere a disposizione di una comunità di utenti, il più possibile differenziata, il maggior numero di informazioni possibile.
In quel contesto, anche le autorità di San Francisco, in California, avevano per lo stesso motivo deciso di eliminare dai computer della biblioteca i software di filtraggio che consentivano di controllare gli accessi alla Rete, sostenendo che la presenza dei dispositivi imposti dal CIPA avrebbe costituito un ulteriore elemento di discriminazione sociale, in quanto i frequentatori principali degli accessi pubblici a Internet sono gli appartenenti alle minoranze etniche che non hanno la possibilità di connettersi alla Rete privatamente.