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Affrontare il successo. Degli altri

26 Agosto 2024

Affrontare il successo. Degli altri

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La mentalità giusta per la crescita passa anche dall’accettazione dei traguardi raggiunti dall’amico-nemico. Basta finte congratulazioni a denti stretti.

Può incoraggiare la nostra ispirazione

Quando il nostro amico-nemico ottiene un premio, la nostra risposta iniziale potrebbe essere una mascella serrata, accompagnata da un Ben fatto sussurrato con le mani strette a pugno. La buona notizia è che non dobbiamo per forza cadere in quello stato: con un po’ di pratica, possiamo iniziare a passare in modo più agevole alla nostra mentalità di crescita, dalla quale potremo formulare in modo ponderato i nostri prossimi passi.

Ricordare la grandezza di sé

Sei più grande della tua risposta al successo degli altri: ricordartelo può aiutarti a passare alla tua mentalità di crescita. Puoi praticare l’esercizio dell’autoaffermazione: tale attività è utile per passare da uno stato di minaccia a uno di sfida, ricordando a noi stessi quanto siamo grandi e sfaccettati e quante risorse interpersonali possediamo. Non sono solo una scienziata, una moglie, la mamma di un cane, una zia divertente o un’amante del Tex-Mex: sono tutte queste cose, e anche tu hai mille sfaccettature. Ripensando a quanto siamo grandi, a quante identità preziose abbiamo, possiamo ridurre la percentuale di noi stessi minacciata dal successo degli altri. Se mi identifico quasi esclusivamente con il mio ruolo di accademica e la mia prossima borsa di studio viene rifiutata, può sembrare che il 90 percento di me sia minacciato. Quando allargo l’obiettivo e considero tutti i miei ruoli, quella percentuale si riduce sostanzialmente, dandomi lo spazio e il respiro necessari per rivalutare la situazione e ricordarmi che la sfida potenzia il mio cervello.

Potremmo ottenere un ulteriore impulso valutando le risorse schierate in passato che potrebbero esserci utili sotto la minaccia di una mentalità fissa; il nostro gruppo potrebbe darci una mano in questo. Quando le venne rifiutato l’incarico, una mossa che di fatto pose fine al suo impiego presso l’università, la ricercatrice Ellen Daniell si sentì devastata: fortunatamente, nel suo gruppo c’erano altre sei scienziate che la guidarono attraverso un processo di autoaffermazione per riconoscere gli altri ruoli che interpretava e comprendere le abilità e l’apprendimento che potevano offrirle per affrontare la situazione attuale. Daniell non si sentì magicamente bene dopo l’incontro, ma capì di essere piena di risorse: questo le permise di passare dallo stato di minaccia a quello di sfida.

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L’autoaffermazione è anche salutare. Bozoma Saint John fece colpo su Pepsi quando convinse l’azienda a ingaggiare una nuova arrivata di nome Beyoncé Knowles (forse avrete sentito parlare di lei!) come ambasciatrice del loro marchio. Successivamente, collaborò con la cantante nel suo show culturalmente determinante organizzato nell’intervallo del Super Bowl 2013. Eppure, più tardi quell’anno, il suo capo le disse che non stava colpendo abbastanza fuoricampo. Non so tu, ma se questi due successi non sono dei fuoricampo, non so cosa possa volerci per essere valutati positivamente da quel manager! Di fronte a quello che sarebbe stato un momento terrificante per la maggior parte di noi, Saint John uscì e comprò una mazza da baseball, non per colpire i finestrini dell’auto del suo supervisore, ma come mezzo di autoaffermazione. Mi sono comprata una Louisville Slugger. Volevo tenerla nel mio ufficio per ricordarmi che io so colpire i fuoricampo. E quando ci riesco, faccio il tifo per me stessa. Quando la nostra performance è ingiustamente paragonata a quella degli altri, possiamo difenderci, vocalmente o simbolicamente.

Riconoscere l’effetto attore-pubblico

Quando vediamo qualcun altro ottenere risultati, ci sentiamo come il pubblico in teatro quando gli attori salgono sul palco principale: nella nostra mentalità fissa, pensiamo che gli attori devono essere nati con abilità speciali e che c’è un elemento di magia e mistero nel loro successo. Nella psicologia sociale, questo è un pregiudizio attributivo chiamato asimmetria attore-pubblico. Se gli attori – coloro che hanno avuto successo – siamo noi, sappiamo bene il percorso che abbiamo intrapreso per giungere a quel risultato; conosciamo le persone e le circostanze che ci hanno influenzato, quelle che ci hanno aiutato lungo la strada, quali decisioni abbiamo preso, le sfide che abbiamo superato e lo sforzo che abbiamo fatto. Nella maggior parte dei casi, il pubblico non è a conoscenza di quel percorso e vede solo il risultato finale: il successo dell’attore appare quindi come qualcosa di magico, o comunque inaccessibile.

Per capovolgere questo concetto, invece di concentrarci sul risultato, dobbiamo focalizzarci sul percorso che l’attore ha seguito per arrivare sul palco, in particolare le difficoltà che ha superato (perché saranno queste a fornirci il maggior numero di informazioni). Può essere molto utile fare riferimento al concetto teatrale o mitologico della storia di origine. Una cosa è pensare: Quell’individuo ha poteri mitici conferitigli dai suoi antenati: è nato già speciale. Un’altra è vedere il suo percorso: Oh, in realtà si è esercitato per tutta la vita per quel ruolo, poi ha dovuto dimostrare le sue capacità in contesti diversi e persino lottare per conquistare quella posizione; l’ha persa e poi ha dovuto riprendersela! Dove ha trovato la forza d’animo necessaria? Quali strumenti ha utilizzato?. Ogni persona di successo ha la propria storia di origine: molte di queste possono illustrarci come avere successo, soprattutto se comportano sfide e lotte.

È fantastico vedere che le persone prendono l’iniziativa e tirano fuori queste storie, ma non dobbiamo imporre l’onere esclusivamente ai dipendenti. È la leadership che deve costruire questo tipo di prospettiva nella cultura del posto di lavoro, per esempio invitando le persone a pranzo e chiedendo loro di descrivere il percorso seguito e magari rispondendo alle loro domande. Atlassian utilizza lo storytelling aziendale nel suo podcast Teamistry, nel quale vengono condivise le storie dei team che hanno raggiunto il successo, presentando le sfide che hanno affrontato e gli ostacoli in cui si sono imbattuti lungo la strada. Itzhak Perlman si informa regolarmente sulle difficoltà dei suoi studenti: non chiede loro se qualcosa li sta sfidando, ma che cosa li sta aiutando a normalizzare la lotta. Solo allora condivide alcune delle sue storie, narrando come ha superato le sfide (e parlando delle sfide tuttora in corso) e insegnando agli studenti a trovare le proprie soluzioni. Tutto questo sottolinea qualcosa di fondamentale: i successi degli altri hanno sempre un valore anche per noi.

Le aziende possono normalizzare la condivisione del percorso anche attraverso il tutoraggio o la formazione di gruppi ponderati il cui scopo è la condivisione delle competenze. Nel mio lavoro con Shell, l’analisi dei dati ha dimostrato che il team era riuscito a creare internamente un’incredibile cultura della crescita. Sorprendentemente, quel team era composto interamente da project manager che si occupavano ciascuno del proprio team: non essendoci sovrapposizioni materiali (se non in termini di ruolo), la competizione era assente e i manager si sentivano del tutto liberi di condividere le sfide e le soluzioni che avevano funzionato in passato.

Riconoscere il valore del successo degli altri

Come afferma Simon Sinek, un degno rivale è qualcuno che non solo ti ispira a migliorare il tuo gioco (non qualcuno che vuoi schiacciare a tutti i costi), ma anche qualcuno che ti aiuta a farlo perché è più forte in alcuni ambiti. Proprio come avevano fatto Evert e Navrátilová l’una per l’altra, un degno rivale ti aiuta a identificare le aree in cui puoi migliorare e ti suggerisce come farlo. Osserva, ancora una volta, che questa idea dei degni rivali all’apparenza ricorda molto la competizione, solo che intimamente non spinge a schiacciare il rivale ma a fare meglio in prima persona.

Ho avuto la mia parte di degni rivali nel mio lavoro, molti dei quali sono oggi cari amici: le due cose non si escludono a vicenda. Quando tornai alla scuola di specializzazione, però, mi trovai (come molti altri) ad affrontare diverse sfide. Quando stai completando gli studi e ti avvii verso una carriera professionale, la consapevolezza del numero limitato di posti di lavoro nel settore accademico può gettare una cappa sulle relazioni interpersonali: lo vedo anche oggi tra gli studenti laureati con cui lavoro. Ho preso l’abitudine di assumere da due a tre dottorandi alla volta per creare una piccola coorte con cui collaborare: inevitabilmente, molti di loro diventano amici intimi. Tuttavia, mi accorgo che, quando sono pronti per lanciarsi sul mercato, la loro mentalità fissa inizia a farsi invadente e nascono le tensioni, legate magari alla richiesta di lettere di raccomandazione per la stessa posizione.

La cultura della crescita, di Mary C. Murphy

Le grandi idee provengono da persone di ogni provenienza e inquadramento, non solo dagli elementi considerati più brillanti o talentuosi.

Fortunatamente l’ho vissuto in prima persona e sono in grado di offrire loro un punto di vista che li spinga verso la mentalità di crescita: li incoraggio a parlare dell’imbarazzo tra loro per normalizzare questi sentimenti e ampliare la loro prospettiva, ma anche a discutere i vantaggi dell’avere amici e colleghi stretti sul campo. Non puoi avere una carriera di successo nel mondo accademico se solo tu ti occupi di qualcosa: se operi in una nicchia così piccola che non interessa a nessuno, finirai nei guai. L’obiettivo deve essere fare in modo che le tue idee vengano accolte da altri, perché solo così potranno migliorare la società, anche attraverso lo sviluppo in direzioni che non avresti mai immaginato. Inoltre, se lasciamo che una minaccia avveleni le nostre relazioni sin dall’inizio, non costruiremo rapporti produttivi e collegiali in seguito: questa mancanza complicherà il raggiungimento del successo e influirà negativamente sulla qualità della nostra vita.

Riconoscere quando è il proprio successo a spingere gli altri verso la loro mentalità fissa

Forse è capitato anche a te: un amico o un collega è diventato stranamente distante dopo la tua promozione. A volte è il nostro successo a rappresentare un fattore scatenante per gli altri. Per costruire i team e i risultati migliori e più efficaci, dovremmo ricordare sempre che la collaborazione si basa sulle relazioni. Cosa possiamo fare, allora, quando il nostro successo è il catalizzatore che spinge gli altri nella loro mentalità fissa? Quello che non si deve fare è minimizzare il proprio risultato. Le donne, in particolare, subiscono pressioni sociali per farlo e questo ha un impatto negativo sull’avanzamento.

Quello che possiamo fare quando siamo la fonte dell’invidia è considerare l’effetto attore-pubblico: ricorda che gli altri non hanno visto il tuo percorso e quindi probabilmente hanno percezioni imprecise su ciò che ci è voluto per arrivare dove sei. Possiamo rimediare condividendo le nostre esperienze, sia formalmente che informalmente: possiamo offrirci di consigliare un collega, o fargli da mentore, possiamo organizzare una chiacchierata e, se occupiamo una posizione superiore, possiamo parlare del nostro percorso durante i colloqui. Nei contesti più informali, possiamo ricordare agli altri dove siamo inciampati: Ricordate quando mi avevano rifiutato la cattedra? Per me è stato fondamentale che i colleghi mi abbiano aiutato a identificare le mie risorse e a capire come riorganizzarmi e andare avanti in modo strategico. Se non l’avessero fatto, non credo che sarei passato all’industria privata e non sarei mai diventato vicepresidente. Questo non solo disinnesca il fattore scatenante, ma aiuta gli altri a migliorare.

Questo articolo richiama contenuti da Mary C. Murphy..

Immagine di apertura originale di Constant Loubier su Unsplash.

L'autore

  • Mary C. Murphy
    Mary C. Murphy ha conseguito un dottorato in psicologia sociale presso l'Università di Stanford nel 2007, sotto la guida di Claude Steele e Carol Dweck. Oggi, sempre a Stanford, dirige il Summer Institute on Diversity. Insegna Psicologia e Neuroscienze presso l'Università dell'Indiana ed è CEO di Equity Accelerator, un'organizzazione di ricerca e consulenza che collabora con scuole e aziende per creare ambienti di apprendimento e di lavoro più equi. Nel 2019 ha ricevuto il Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers, il più alto riconoscimento che il governo degli Stati Uniti conferisce agli studiosi per i meriti raggiunti nelle prime fasi della loro carriera.

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