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Accesso libero e ribellioni creative con le nuove tecnologie

01 Dicembre 2005

Accesso libero e ribellioni creative con le nuove tecnologie

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Pirati o hacker, eretici postmoderni o cyberattivisti: il messaggio è condividere, qui e ora

Mai come oggi parlare di “pirati”, nel contesto digitale, suscita un arcobaleno di emozioni forti, dalla nausea all’euforia alla rabbia (oltre alla mano pesante delle major e delle legislazioni nazionali). Figuriamoci poi a vantarne alcune gesta – meglio: a motivarne l’apparato teorico o a descriverne certe azioni, entrambi elementi cruciali di una realtà mirata alla condivisione e alla libera circolazione della cultura odierna.

Eppure questo è lo scenario incontrovertibile per le tecnologie e gli utenti odierni, ancor più per quelli di domani.

Il problema è tale realtà viene negata a colpi di minacce e querele dalle mega-corporation dell’entertainment, anzi meglio da un’industria culturale di vecchio stampo che non vuole prendere atto dell’inarrestabile vento di cambiamento.

Non si tratta, quindi, di “pirateria” nel senso delle contraffazioni commerciali su larga scala (che fanno molti danni, ma che tutto sommato non provocano troppo clamore sui media e tra la gente) quanto piuttosto di addentrarsi con cognizione di causa nelle storie quotidiane dei “sovversivi” che oggi condividono musica e software come un tempo si faceva con le musicassette tra amici.

Oppure, di illustrare con dovizia le dinamiche meno evidenti di quel guazzabuglio noto come “proprietà intellettuale” onde chiarire la necessità del libero accesso “all’ecosistema della conoscenza”.

Proprio di queste tematiche si occupano due volumi di recente uscita in Italia, entrambi rilasciati sotto le licenze Creative Commons: Elogio della pirateria (Carlo Gubitosa, edizioni Altreconomia) e Sul buon uso della pirateria (Florent Latrive, Derive/Approdi).

Quest’ultimo, ripercorrendo le origini e la natura del concetto moderno di “proprietà intellettuale”, ne ricompone il senso più ampio e variegato nell’attuale contesto sociale innervato dalle tecnologie digitali. Indicando le tendenze imperanti, almeno in superficie, quelle che portano “alla conquista dell’intangibile, all’appropriazione dell’impalpabile”.

Eppure la storia ci ha fornito (e ci fornisce) svariati esempi contrari a tale tendenze, dall’industria della seta a Lione nel XVIII secolo all’Istituto Curie dei nostri giorni.

Da qui, il libro procede a definire, e quindi a smontare pezzo per pezzo, le tesi a favore della “recinzione” della conoscenza. Fino a sottolineare, da una parte, il costante aumento delle “barriere a pagamento”, fenomeno di cui ci sarebbe da preoccuparsi seriamente se invece non portasse, dall’altra, “a un allargamento sempre maggiore della gratuità e della cooperazione, facilitato dai progressi tecnologici”.

Analisi per nulla nuove, quelle che ci propone il giornalista del quotidiano francese Libération, ma condensate in una prosa stilistica di chiaro stampo europeo – elemento benefico e tutt’altro che comune in quest’area, dove la maggior parte degli interventi in circolazione sono made in USA.

Come pure la prefazione del volume, affidata a Lawrence Lessig, il quale ribadisce alcuni concetti semplici ma sempre cruciali: “affermare la libertà intellettuale e culturale non significa negare la necessità della protezione giuridica degli artisti e della loro creatività”. Come in passato, occorre dunque ragionare e trovare compromessi elastici sul copyright nell’era digitale, come pure sul buon uso della “pirateria”. Ovvero, riprendendo la nota speranzosa con cui si chiude il libro: “l’estensione senza limiti dell’appropriazione dell’immateriale da parte dei privati è votata al fallimento”.

Analoghi, e più forti, segnali positivi arrivano dall’attivismo evidenziato nelle “dieci storie di ribellioni creative” descritte invece nell’agile volume di Gubitosa, nome noto ai cyber-utenti nostrani. Si tratta, meglio, di “salvare la nostra cultura da una precoce morte cerebrale”.

Questo il senso delle azioni dei “pirati” della salute contro i brevetti sui farmaci, oppure contro le corporation USA che hanno brevettato piante come il pepe nero e il riso parboiled o il codice genetico di un indigeno della Papua Nuova Guinea (pur rinunciando a qualsiasi rivalsa, ciò ha creato precedenti pericolosissimi).

E ancora, ecco le antenne ribelli delle odierne telestreet cittadine, che rilanciano quanto accadeva nei primi anni ‘70, con le radio libere dell’epoca pre-assegnazione delle frequenze FM. Per continuare con i writer urbani e gli immancabili hacker alla Stallman, fino ai nostri giorni fatti di reti peer-to-peer, condivisione e perfino iTunes, insomma quel magma continuo cui ci ha abituati l’etere elettronico.

In sostanza, il percorso di questi “eretici post-moderni e ribelli creativi” mira a farci riflettere e prendere atto del bisogno urgente di trovare risposte nuove alle trasformazioni in atto. E di questa mutazione in fieri, potenzialmente assai benefica per gli esseri umani e per l’intero pianeta, dobbiamo essere grati ai “pirati”, ieri come oggi.

Questa almeno la provocazione alla base del libro, uno brillante excursus in territori per lo più nascosti al grande pubblico e ai media mainstream, non certo a caso, per offrire spunti e storie quotidiane atte a chiarire come idee e pratiche ora ritenute sovversive, o finanche illegali, si avviino a divenire la norma di domani – com’è stato più volte il caso nella lunga storia dell’umanità.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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