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Abbondanze e scarsità

25 Giugno 2013

Abbondanze e scarsità

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Aumenta la nostra libertà di azione, ma tendiamo a perdere il possesso dei beni digitali che pensiamo di acquistare.

Riflettendo sulla sharing economy e sui cambiamenti che la rete porta all’essenza stessa delle società e dei mercati, Alessandra Farabegoli scrive che la condivisione dei beni ha un effetto dirompente sullo stato delle cose:

ogni disintermediazione, partecipazione diretta, creazione di legami fra pari, indebolisce le grandi sovrastrutture sociali ed economiche che negli ultimi secoli hanno governato e definito le nostre vite: i grandi poli dell’informazione, le big corporation, le istituzioni accademiche, lo Stato stesso che, quando le persone scambiano invece di acquistare, incassa meno tasse.

Non si tratta soltanto dell’economia-prima-di-internet, non sono gli stanchi giganti di carne e acciaio che John Perry Barlow cita nella Dichiarazione d’indipendenza del ciberspazio. Le sovrastrutture prescindono dall’esistenza della rete e esistono per rispondere a una esigenza molto precisa: preservare la scarsità anche in un regime di abbondanza potenziale.

Le grandi aziende – online o offline – non hanno interesse nel modificare la situazione, perché la scarsità è l’unico modello economico che – per quanto ne sappiamo – funziona. Il cambiamento che stiamo attraversando riguarda il modo in cui la scarsità viene gestita e organizzata. Limitare il concetto di possesso dei beni è una delle strategie adottate e la storia di ReDigi è interessante e utile per capire meglio.

ReDigi è un prodotto che consente di rivendere file MP3 acquistati legalmente: una volta ceduto, il file viene rimosso dal sistema di chi vende, replicando quello che succede con la compravendita di beni fisici usati. Anche ReDigi opera mantenendo la scarsità, ma allo stesso tempo tenta di aprire un nuovo mercato di cui potrebbero beneficiare utenti e musicisti; ma non le case discografiche. Esattamente il motivo per cui ReDigi è stata accusata da Capitol Records di violazione del copyright, e ha perso la causa. Secondo la corte,

qualsiasi trasferimento che ha luogo attraverso Internet crea una riproduzione dell’opera sulla macchina ricevente, un nuovo oggetto fisico che è “incarnato” sull’hard disk di chi acquista,

violando il Copyright Act. Al netto del ridicolo – secondo la stessa corte è tutto perfettamente legale se si vende l’hard disk che contiene i file – la sentenza crea un precedente pericoloso, sospendendo il principio di first sale: un prodotto protetto da copyright può essere rivenduto, purché non vengano effettuate copie.

Insieme al first sale saltano – potenzialmente – tutti i mercati secondari per i contenuti digitali, ma soprattutto il nostro possesso sui beni: il soggetto che detiene il copyright è in grado di far valere la sua volontà anche dopo l’acquisto, riducendoci da proprietari a licenziatari temporanei.

L’accesso ai contenuti via streaming – specialmente per musica e video – e in generale con sistemi di distribuzione cloud è utile, ha migliorato la vita di molti e contribuito a ridurre la pirateria, ma ha alcuni svantaggi.

Il primo è strettamente monetario: sistemi come Spotify o Netflix ci mettono nelle condizioni di pagare per mesi o anni e acquistare solo l’accesso al servizio. Il secondo è più profondo: se non siamo proprietari dei contenuti a cui desideriamo accedere, questi possono esserci portati via in qualsiasi momento. Le nostre fonti di intrattenimento, di apprendimento, di cultura restano di altri, soggette alle esigenze di altri: esigenze che non necessariamente coincidono con la nostre.

L'autore

  • Ivan Rachieli
    Ivan Rachieli, 30 anni, laurea in letteratura russa, master in editoria. Ha lavorato in GeMS con gli ebook, e in ZephirWorks con le applicazioni web. Un giorno mollerà tutto e se ne andrà sul lago Bajkal, per dedicarsi finalmente alle cose serie, come ad esempio la caccia col falcone. Se avete voglia di conoscerlo meglio, potete fare due chiacchiere con lui su Twitter @iscarlets o leggere il suo blog.

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