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Abbasso lo spamming… oppure no?

27 Marzo 2003

Abbasso lo spamming… oppure no?

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Alla ricerca di compromessi tecnico-legislativi per un fenomeno illecito, dicono alcuni, o di marketing legale, secondo altri.

Lo spam ormai divenuto un fenomeno di massa. Soltanto negli USA, si prevede che entro fine anno la metà di tutte le e-mail in circolazione sarà costituita da messaggi pubblicitari non richiesti. Dalle proposte di lavori iper-remunerativi senza muovere un dito a software per la copia facile di ogni DVD da prodotti super-garantiti per “penis and breast enhancements” a tutto il porno online “gratis”. Montagne di e-mail assai poco legittime, con l’aggravante che nella stragrande maggioranza dei casi i mittenti appaiono chiaramente camuffati. Soluzioni in vista? Nonostante i tentativi tecnologici in atto e le proteste diffuse dell’utenza, quanto sembra delinearsi al momento non è altro che il tipico compromesso che soddisfa tutti e nessuno. Già, perché lo scenario appare alquanto complesso, dovendo tener conto delle possibili trovate tecnologiche e dei trend di mercato, della legittimità delle campagne di marketing e della necessità di norme chiare a tutela della privacy degli utenti.

L’ennesima ricerca in materia parla chiaro: Brightmail, produttore di software anti-spam, riporta che quasi il 40 per cento dell’odierna posta elettronica degli utenti USA concerne messaggi pubblicitari di varia natura. Una crescita dell’otto per cento rispetto alla fine del 2001 e addirittura il doppio del flusso registrato nell’ultimo semestre. Qualcosa di analogo a quanto già accade con il comune servizio postale: oggi in USA circa il 40 per cento di questo è rappresentato dal business marketing (la nota “junk mail”). Pratica tanto legittima quanto tradizionalmente assai diffusa. È per questo che l’imprenditoria teme che un divieto legislativo tout court possa danneggiare irreparabilmente le campagne di marketing online. Sarebbe meglio lasciar decidere alle tendenze commerciali, insomma, tenendo aperte al massimo le opzioni offerte dall’e-marketing. Di conseguenza, le nuove norme dovrebbero differenziare le e-mail di pubblicità legittima da quelle illegali, ovvero con subject ingannevoli e offerte fraudolenti, o di cui sia impossibile rintracciare la vera identità del mittente. “Vogliamo fare in modo che i ‘cattivi’ vengano immediatamente identificati,” chiarisce Louis Mastria, portavoce della potente Direct Marketing Association. “La responsabilità è elemento-chiave.” Anche perché l’e-marketing va affermandosi come un settore economicamente forte. Secondo Jupiter Research, lo scorso anno il volume d’affari della nuova industria ha toccato la bella cifra di 1,4 miliardi di dollari.

Sul fronte opposto, viene prima e innanzitutto la tutela della privacy, come sostengono svariate entità tra cui la Coaliton Against Unsolicited Commercial Email. Spiega lo stesso fondatore, John Mozenza: “Negli Stati Uniti esistono 24 milioni di piccole aziende. Se appena l’uno di per cento di queste dovessero decidere di inviare un solo messaggio l’anno ad un utente online, quest’ultimo riceverà 657 e-mail al giorno. E stiamo parlando unicamente delle piccole aziende.” Su queste basi, si chiede perciò un divieto senza eccezioni, analogo a quello che nel 1991 ha colpito i “junk fax”. Attualmente però soltanto lo stato del Delaware ha approvato una legge simile, e finora nessun caso è stato portato in aula perché “è troppo difficile e dispendioso rintracciare la fonte dello spam,” spiega Steven Wood, avvocato della procura generale del Delaware. Intanto però, ricorrendo proprio ad una di tali legislazioni a livello locale, recentemente Mark Reinertson ha vinto in Michigan la causa civile avviata contro Sears Roebuck, ottenendone 539 dollari a rimborso dei danni subiti. E qualche giorno fa una corte d’appello ha ribadito la validità del divieto di inviare fax indesiderati, perché tale divieto non viola la libertà d’espressione garantita dal primo emendamento alla costituzione.

D’altra parte, le agenzie di marketing e i provider internet si oppongo anche all’opt-in, l’esplicita richiesta di materiale informativo da parte dell’utente, preferendo il più semplice ma meno rigoroso opt-out, sorta di silenzio-assenso al ricevimento di email pubblicitarie. Tra gli altri, anche Amazon ha fatto sentire la propria (possente) voce contro un divieto generalizzato. “Pur non essendo nostra pratica l’invio di e-mail commerciali non richieste – ha puntualizzato Paul Misener, uno dei vicepresidenti del colosso dell’e-commerce – spediamo ogni giorno migliaia di messaggi al giorno: cosa succederebbe se dovessimo commettiamo un errore? È facile fare uno sbaglio, e il danno reale sarebbe minimo.” Ci si preoccupa cioè di evitare l’introduzione di misure draconiane che colpirebbero un medium fin troppo elastico e mutevole.

Perché non puntare tutto sull’innovazione tecnologica, allora? Programmi-filtro ne esistono parecchi in circolazione, anche sofisticati, peccato che non si dimostrano mai troppo efficaci, anche per via della scaltrezza degli spammer più consumati. L’ultimo della serie è Mailblocks, la e-mail “di prossima generazione”, ideato da Phillip Goldman, tra i fondatori alcuni anni fa di quella WebTV poi passata nella scuderia Microsoft per 425 milioni di dollari. Appena lanciato (solo per PC, almeno per ora), il sistema è a pagamento ma promette faville, a partire dalla creazione automatica di un codice numerico che il mittente deve confermare prima di legittimarne le e-mail e passarle nella in-box del destinatario. Bella trovata, almeno così sembra, ma certamente non risolutiva. “Sappiamo che gli spammer cercheranno di ‘crack’ anche questa tecnologia,” rivela Goldman. “Ma quando riusciranno a risolvere il puzzle, noi saremo già pronti con la prossima soluzione.”

Nel frattempo sulle reti di grandi provider quali America Online e Microsoft Network i filtri umani operano 24 ore su 24, soprattutto alla caccia, spesso vana, dei veri ideatori dello spamming di turno. Limitando al contempo la quantità di “bulk e-mail” che è consentito inviare agli utenti, vedi quelli di Hotmail. E nel complesso crescono, da parte di un po’ tutti i soggetti coinvolti, le spinte per decisi interventi a livello federale — con le annesse pressioni delle varie lobby. O forse meglio, si spera quantomeno in una sorta di compromesso capace di tener conto delle soluzioni tecnologiche, dei trend di mercato, della necessità di norme precise per tutti. Al Congresso è prevista a breve la ripresentazione di una proposta di compromesso, decaduta nella precedente legislatura, firmata dai senatori Conrad Burn (repubblicano) e Ron Wyden (democratico): verrebbero messe fuorilegge le e-mail con un subject equivoco e in cui viene camuffata la reale identità del mittente. Norme che non soddisfano certo le associazioni pro-utenti, come chiarito sopra. Mentre la Casa Bianca sembra voler stare ancora alla finestra, anche se la Federal Communication Commission terrà il prossimo mese un simposio aperto a tutte le parti in causa. Ne uscirà fuori qualcosa di buono?

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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