Un movimento nato da un articolo dirompente
Sono passati quasi 10 anni dalla prima volta in cui nell’ecosistema americano è stato usato questo termine: growth hacking.
Forgiare un nuovo termine era particolarmente sentito da una persona che negli anni ha contribuito a far crescere le metriche e i fatturati di alcune tra le startup digitali più promettenti del tempo.
Questa esigenza era dovuta al fatto che il suo modo di operare all’interno di queste organizzazioni era alquanto rivoluzionario rispetto a ciò che solitamente si tendeva (e si tende ancora oggi) a fare in materia di gestione di un progetto imprenditoriale.
Il punto è che quando Sean Ellis scrisse quel famoso articolo, Find a Growth Hacker for your Startup, il 26 Luglio 2010 all’interno del suo blog Startup Marketing, diede vita – forse inconsapevolmente – ad un nuovo movimento di manager, che fu poi ulteriormente rilanciato qualche anno dopo da un altro grande professionista del campo, Andrew Chen.
Come tutti i nuovi movimenti e di conseguenza le varie nomenclature ad essi associati, uno dei rischi più comuni è che si possa creare dal nulla una grande nube di confusione attorno all’argomento.
E spesso quando accade ciò, specialmente se il nuovo termine suona bene, è un attimo che diventi una buzzword usata da tutti e con buone probabilità che sia stata effettivamente compresa da ben pochi per quello che è.
Il growth hacking è un motore di crescita
Il concetto di fondo è che il growth hacking supporta la crescita aziendale mediante una sperimentazione costante di strumenti, procedure, strategie, tecniche e infine attività operative.
Chi invece spesso abusa del termine crede che il growth hacking sia attinente a uno o più dei seguenti punti:
- È un insieme di tecniche e trucchetti efficaci.
- Si può applicarlo in ogni circostanza.
- Lo applicano i programmatori.
- È utile solo per le startup.
- Non ha bisogno di budget.
- È opera di un singolo supereroe.
- Un solo grande hack determina il successo di un’impresa.
Questo articolo è stato proprio pensato per fare chiarezza sull’argomento… e per sfatare i 7 miti sul growth hacking
Mito 1: il growth hacking è un insieme di trucchetti
Uno degli aspetti principali su cui si fa confusione è che il growth hacking non sia altro che la cassetta degli attrezzi dei maghi!
Una bacchetta di qua, una pozione di là ed ecco che l’incantesimo della crescita è pronto.
In realtà le tecniche che vengono fatte passare per growth hack sono delle best practice che in un determinato settore si rivelano essere molto efficaci, ma da qui a dire che possano funzionare su qualsiasi progetto c’è molta strada da percorrere.
Ecco perché è necessario continuare a sperimentare e testare sempre nuove strategie al fine di individuare quelle che risultano adatte per la situazione specifica.
Mito 2: si può sempre fare growth hacking
Un’altra considerazione sbagliata è che si possa applicare il growth hacking dappertutto e su tutto.
La verità è che esistono requisiti minimi ben precisi per poter implementare queste metodologia nella propria organizzazione.
Innanzitutto il progetto deve aver raggiunto almeno la fase di Product-Market Fit.
Con questo termine intendo sostanzialmente che il prodotto o servizio al centro della proposta di valore del nostro business soddisfa un mercato di riferimento la cui dimensione consente di rendere il modello profittevole e sostenibile nel tempo.
L’altro requisito è che ci sia un team operativo dedicato sul progetto con competenze varie che possono spaziare dalla progettazione e sviluppo del prodotto fino al marketing e all’analisi dei dati.
Infine è anche questione di mentalità delle persone con cui si dovrà collaborare per applicare questo metodo operativo in azienda: senza la giusta predisposizione nell’accogliere un processo sistematico, che metta alla pari varie attività per poi decretare uno o più vincitori in base alle loro performance e scarti ciò che effettivamente non ha portato alcun beneficio, sarà molto difficile puntare sul growth hacking per la crescita del progetto.
Mito 3: il growth hacker è uno sviluppatore
Un’altra idea del tutto errata che si ha riguardo al growth hacking è che il growth hacker non sia altro che un programmatore.
Questo è probabilmente dovuto alla seconda parola che compone il termine finale: hacking.
Infatti, per chi non va ad indagare oltre la terminologia, può risultare estremamente facile associare questa metodologia a quella degli esperti di sicurezza informatica.
Il concetto di hacking in questo caso indica invece la capacità di sapersi ingegnare al fine di trovare sempre una soluzione alle varie criticità che un business presenta in termini ad esempio di colli di bottiglia, tassi di drop e abbandoni vari degli utenti.
Mito 4: il growth hacking è utile solo per le startup
Il growth hacking è nato in Silicon Valley, dove, considerando i capitali a disposizione, è più facile sperimentare. E chiamandosi in quel modo è più probabile che venga applicato a startup digitali.
Ciò però non significa che non si possa implementare questa metodologia su aziende più tradizionali se non addirittura sul retail, purché esistano dei canali digitali con i quali testare varie strategie.
Mito 5: il growth hacking non ha bisogno di budget
Come appena detto qualche riga sopra, per poter sperimentare bisogna avere, metaforicamente parlando, benzina.
Questa benzina non può essere che un budget a disposizione per le attività legate agli esperimenti di growth hacking: dagli a/b test sulle campagne di advertising piuttosto che la prova di vari strumenti digitali per fidelizzare i propri clienti e mantenerli attivi sulla propria piattaforma.
Mito 6: i growth hacker lavorano da soli
Si parla di growth hacker e qualcuno potrebbe immaginare un superman che da solo risolve tutto e fa crescere qualsiasi progetto.
La verità è che il growth hacking è uno sport di squadra. Una squadra che deve essere composta da giocatori differenti, presi ad esempio tra i seguenti ruoli:
- Marketer
- Sviluppatori
- Designer
- Data analyst
- Commerciali
- Business developer
- Customer care
Infatti il growth hacker è di fatto un project manager che coordina il team dedicato alla crescita e traccia tutto il processo di sperimentazione in modo tale da comprendere nel tempo (e far comprendere) ciò che funziona e ciò che non produce alcunché.
Mito 7: basta un solo grande hack per avere successo
Infine si tende a pensare che l’affermazione di un progetto imprenditoriale sia molto spesso il frutto di una sola grande azione, il cosiddetto growth hack.
Quante volte capita di leggere titoli di articoli del tipo 50 best growth hacks to skyrocket your e-commerce?
Si tratta di post dal titolo fuorviante che contemplano una sorta di catalogo di ricette già pronte (e qui ritorniamo al primo mito sfatato) per far crescere un business.
Faccio due considerazioni a riguardo:
- Un vero growth hack è solo un test andato a buon fine rispetto ai criteri di valutazione sull’esito dell’esperimento e in quanto tale non può essere definito in questo modo prima di eseguire il test.
- Il successo di un’azienda che abbraccia questa metodologia all’interno delle sue attività operative è il risultato di un processo più o meno lungo che produce sia esperimenti fallimentari sia test positivi.
Questi ultimi vengono definiti small win e la combinazione di una loro serie spesso produce la vera scintilla che innesca la crescita definitiva dell’impresa.
7 miti da sfatare sul growth hacking: conclusioni
In definitiva il growth hacking è una metodologia molto pragmatica che si basa sulla sperimentazione continua all’interno dell’organizzazione al fine di far crescere le metriche di business più rilevanti in un dato momento.
Per poter applicare questo processo, una azienda – non per forza una startup – deve soddisfare una serie di requisiti, per esempio un progetto che ha raggiunto la fase di Product-Market Fit.
Questa disciplina non riguarda solo la programmazione ma abbraccia un ventaglio più ampio di competenze tra cui marketing, data analysis, UX e design.
Tutte capacità che devono essere presidiate da un team operativo incaricato di avviare gli esperimenti, potendo fare affidamento su un budget più o meno corposo, sotto la guida di un growth hacker.
L’insieme di vari test positivi e la conseguente integrazione di queste attività nei processi aziendali potrà determinare una significativa crescita di fatturato e altri indicatori di performance vitali per l’organizzazione stessa.
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