La prima cosa che ho fatto quando ho appreso dell’esistenza di Kobo in versione italiana è stata raggiungere la libreria Mondadori più vicina, dove ho sollecitato allo spasimo gli esemplari in esposizione per tutto il tempo possibile.
Non scriverò tuttavia una recensione di Kobo, se non a furor di popolo (solo una cosa: gli amanti degli scacchi acquistino il modello superiore. Anzi, due: c’è dentro il browser, anche se quasi certamente la cassiera non lo sa). Voglio invece comunicare poche ambivalenti sensazioni di superficie.
Nutro pochissimo amore verso i mercati monopolizzati e di conseguenza vedo l’uscita di ogni nuovo ereader come una piacevole assicurazione sulla libertà di leggere come desidero. Oltretutto Kobo è molto più libero di altre architetture. Contemporaneamente, so che una eccessiva frammentazione rappresenta un ostacolo alla crescita sana del mercato e da questo punto di vista mi chiedo se un lettore in più fosse la prima cosa che serviva. Mi risuona in testa Preston Lee:
Ogni venditore di contenuti vuole tentare di diventare il proprietario di fatto dei dati per l’intero mercato e chi sta in cima alla piramide – Amazon prima di tutti – ha zero interesse nel supporto di dati standardizzati e interscambiabili.
Trovo positiva l’esposizione dei lettori digitali dentro le librerie. Nei Media World (con tutto il rispetto) restano spenti, prendono polvere e suscitano una ripulsa istintiva, immeritata checché si pensi della lettura digitale. Tuttavia, cara Mondadori (valga come sineddoche, un destinatario per tutti), esporre il lettore non è la fine dell’esperienza utente: è l’inizio. I commessi vanno almeno minimamente formati e messi in grado certamente di vendere l’apparecchio, così come però anche di chiarire, convincere, illustrare. La mia commessa chiedeva informazioni a me.
Mi sorride infine l’idea di una casa editrice che prende l’iniziativa di proporre il proprio lettore. Ampliamento del mercato, superamento di dubbi e timidezze da parte degli acquirenti, testimonianza che gli ebook fanno passi avanti. Non perché li debbano fare obbligatoriamente o che si voglia male alla carta. Semplicemente, sono qui e non se ne andranno, quindi una buona convivenza è meglio che una cattiva.
A patto però che Kobo rientri in una strategia aziendale attenta e consapevole, più che al colpaccio estemporaneo di qualche dirigente ansioso di scalare la gerarchia. Le perplessità che ho su Kobo derivano in gran parte dall’esistenza di Biblet.