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Collettività che danno nuovi nomi alle cose

16 Dicembre 2011

Collettività che danno nuovi nomi alle cose

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I territori devono imparare a presentarsi degnamente in rete. Dalle brochure ai social network, è in corso una colossale opera di traghettamento culturale

Bene, sono almeno cinque anni che sappiamo che abitiamo nel social web. Non è che prima parlassero tra loro solo i computer, con lunghe stringhe di zero e uno, di argomenti che riguardano solo loro. Eravamo sempre noi umani lì a scrivere cose e a far girare informazioni opinioni e punti di vista e decisioni. Narrazioni, conversazioni, così chiamiamo oggi i flussi di informazioni non più “puntuali” e frammentati come lo erano dentro pagine web statiche, ma anzi veloci nel sapersi autonomamente propagare in Rete. Una volta le cose erano più lente, tutto qui. E si è anche capito che il web serve per parlare di tutto, compreso quello che mi sta vicino, i luoghi dove abito fisicamente. «Il territorio fa emergere narrazioni», sento dire, e mi viene in mente la nebbiolina che sale sopra i campi nelle mattine d’inverno.

Iperlocali

Oppure vedo che molte web agency offrono tra i loro servizi professionali la progettazione e la realizzazione di campagne informative o videoproduzioni su tematiche iperlocali, avendo poi magari come committenti le stesse Agenzie del Turismo interessate (finalmente) a popolare i loro asettici siti web, pensati magari ancora come portali, con contenuti ben disegnati e tagliati sul turista-viaggiatore, oppure disposte a ascoltare e riproporre nella loro comunicazione quanto viene appreso dai feedback che le iniziative innescano sulla Rete. Stanno emergendo, diciamo così, dei microformat digitali di narrazioni territoriali. Pacchetti strutturati capaci di raccontare le peculiarità geografiche antropiche o emozionali di un territorio, al punto che già potrebbe essere possibile organizzarli secondo una stilistica. Tutti quelli che negli anni scorsi si sono concentrati nell’ideare le Vie del Vino o dell’Amore, oppure “Gli itinerari segreti della zona collinare”, o i percorsi di archeologia industriale ora devono rapidamente adeguare i materiali e lo stile della narrazione alle nuove esigenze mediatiche del social web.

Oggidì qualsiasi campagna mediatica di un evento territoriale pubblico o privato deve sapersi presentare degnamente in rete, avere un sito leggero e funzionale, deve saper attivare e mantenere luoghi di conversazione e reti sociali, promuoversi con stile per poter piacere (“like”) alle persone e trovare nuovi modi di far conoscere se stessa. Sul lungo termine, vediamo una colossale opera di traghettamento, come al solito, dove tutta la cultura a esempio dell’offerta turistica tipica di un territorio, stratificata in decenni di brochure e convegni del settore va ricodificata nelle nuove forme espressive, nel bottone “like” e nei flussi degli aggregatori, nei manufatti architettonici e nei totem elettronici con appiccicato sopra il QR code, negli audiovisivi che vanno reimpacchettati per poter essere fruiti in mobilità con i cellulari, e tutto questo nell’orizzontalità del passaparola (che però richiede la progettazione di contenuti dall’alta spreadability, ovvero resi disponibili in un formato tale che con facilità one-click possano essere ri-pubblicati e re-immessi nel flusso imperterrito della comunicazione online, nei propri lifestraming).

Lo spirito del luogo

Non si tratta mica solo di comunicazione istituzionale, calata dall’alto, progettata e realizzata con tanti soldi. Dicevamo del web 2.0, quello partecipativo, che con graziosi software Ajax e soprattutto tramite smartphone permette con facilità a tutti di pubblicare ogni tipo di documento multimediale, quel social web dove i commenti di tutti costruiscono le conversazioni: gli apporti spontanei fluiscono nel calderone della socialità digitale, lì trovando a loro volta viralità e diffusione nella pratica della condivisione. Come la panna che affiora dal latte, i motori di ricerca e gli aggregatori più o meno automatici per la curation dei contenuti faranno auspicabilmente emergere quelle narrazioni georeferenziate maggiormente adeguate a descrivere il contesto territoriale, a restituire lo spirito di quel Luogo e le esperienze che può offrire. Quell’adeguatezza al momento appare oscura e casuale, nessuno capisce ancora bene come funzioni questo progressivo mettersi in scena delle identità locali nelle rappresentazioni mediatiche, su base geografica locale o iperlocale. Quel che è certo è che sempre di più ci rendiamo conto di abitare linguaggi, non territori. Allora la conclusione è semplice: dobbiamo sperimentare molto, perché ci servono nuovi nomi da dare a cose sempre esistite, tanto quanto a cose mai viste prima da essere umano.

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