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Il futuro del marketing? Salvare il mondo

14 Dicembre 2011

Il futuro del marketing? Salvare il mondo

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Il fallimento del sistema economico e finanziario è sempre più evidente. È necessario cambiare, ma non è facile cambiare in corsa. Ma chi arriverà per primo ne trarrà il maggior beneficio

Il futuro del marketing è salvare il mondo. Lo raccontava il professor Saadi Lahlou della London School of Economics alla conferenza annuale dell’Accademia Europea di Marketing del 2009, e ce lo ha ribadito in una chiacchierata che abbiamo avuto con lui via mail in questi giorni.  «Troppo spesso nel passato il marketing è stato dalla parte buia della barricata», spiega, «mobilitando ingenti risorse solo per rafforzare i brand e incentivare all’acquisto. Ora è venuto il momento per questa disciplina di dirottare le sue affilate tecniche di persuasione verso la salvaguardia dell’ambiente e la costruzione di comportamenti etici e sostenibili, utilizzando la riconoscenza come strumento di compensazione alla perdita di comfort».

Segnali e opportunità

I segnali del fallimento del nostro sistema economico e politico sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le recenti manifestazioni a Wall Street o nella City di Londra, il Partito Pirata in Svezia, il Movimento 15-M in Spagna, e la crescita del consumo collaborativo, non sono altro che un segnale di quanto le persone siano ormai alla ricerca di modelli alternativi per gestire l’economia e la politica, sebbene le iniziative spesso rimangano ancora frammentate e per lo più, anche se diffuse, a livello locale. «Abbiamo bisogno di cambiare, ma è difficile cambiare le regole del gioco mentre si gioca», continua il Lahlou. «Il problema principale è aiutare quegli organismi che sono bloccati nell’attuale sistema consumistico a trovare un percorso praticabile per creare qualcosa di diverso. Naturalmente questo significa un profondo cambiamento per le aziende e per come si posizionano nel mercato, ma questo cambiamento è inevitabile ed è già  iniziato. Chi arriverà per primo ne trarrà il maggior beneficio».

Le opportunità per le aziende sono tante e delle più disparate. Il settore automobilistico è quello che  si sta muovendo con maggiore disinvoltura spinto dal successo di Zipcar, dalla disponibilità delle persone a noleggiare la macchina piuttosto che a possederla e anche da una buona prospettive di mercatoFord, per esempio ha stretto un accordo con Zipcar per fornire le università americane raggiunte dal servizio con le proprie autovetture; Peugeot ha lanciato MU, servizio di noleggio macchine, moto e bici, che nel corso di quest’anno dovrebbe raggiungere 70 citta europee; Daimler si è spinta anche un po’ oltre creando Car2go, un sistema di car sharing molto simile a Zipcar, che mette a disposizione solo Smart a zero emissioni che è possibile lasciare in parcheggi pubblici sparsi in qualunque parte della città, senza prenotazioni né tempi di noleggio prestabiliti, e a tariffe molto vantaggiose.

Allungare la vita

In altri settori, invece, le sperimentazioni sono decisamente più frammentate e esclusive dei brand più innovativi. Per esempio Timberland, azienda da sempre sensibile a temi legati all’ecologia e all’ambiente, ha lanciato Earthkeepers 2.0, la prima collezione di scarpe riciclabile. Realizzata con il 40% di materiali riciclati tra cui bottiglie di plastica, la scarpa, una volta terminato il suo ciclo di vita, può essere riportata in qualsiasi punto vendita (previa registrazione sul sito), che provvede a inviarla in fabbrica dove viene scomposta in diversi componenti che vengono riutilizzati al 90% in un altro paio di scarpe. Qualcosa di simile fa anche Steelcase, azienda leader nei mobili d’ufficio, che ha progettato una collezione di sedie scomponibili che può essere rinnovata in alcune sue parti. Quando tuttavia il cliente decide di disfarsene può riportare la sedia in azienda che gli propone diverse opzioni di riutilizzo: venderla a terzi, riciclarne alcuni suoi componenti, donarla.

Allungare la vita del prodotto per ridurre l’impatto sull’ambiente e i rischi del proprio business, può essere la sfida anche della grande distribuzione, secondo Lisa Gansky autrice del libro The Mesh, nel quale spiega come le aziende possano contribuire alla sharing economy. Walmart, per esempio, secondo la Gansky, nei prossimi anni avrebbe l’opportunità di trasformarsi da grande rivenditore a importante centro di riparazione e servizi. «Walmart fa affari vendendo cose», scrive la Gansky, «vende a un cliente il televisore o il tostapane più economico, sperando che questi torni dopo qualche anno per comprarne uno nuovo. Ma ogni parte della catena del valore – dalla produzione del tostapane in China, alla spedizione, allo stoccaggio, al deposito fino allo smaltimento – comporta un notevole spreco. (…) Che cosa succederebbe invece, se Walmart garantisse al cliente non solo il miglior prezzo ma anche la durata della tv e del tostapane? Se il televisore si rompe dopo tre o cinque anni, Walmart potrebbe ripararlo con pezzi nuovi e magari più moderni, e alla fine del suo ciclo di vita, potrebbe recuperare il vecchio televisore, riciclarne alcune parti, e magari offrire al cliente uno buono sconto per uno prodotto nuovo». Chi fa già qualcosa di simile è Best Buy, che manda i suoi Geek Squad, direttamente dal cliente per riparare prodotti acquistati presso i suoi punti vendita. Il contatto diretto con il cliente è per Best Buy, ma potrebbe esserlo anche per Walmart e per gli altri grandi distributori, l’occasione per incontrare il cliente e per proporgli nuovi prodotti e occasioni.

Transizione

Se la transizione verso nuovi modelli di servizio e prodotti non è certamente semplice per le aziende, ugualmente non lo è per i consumatori. Questi da troppo tempo sono abituati all’iper consumo e a soddisfare il proprio bisogno o desiderio immediato, piuttosto che pensare alla salvaguardia della comunità e del proprio futuro. A questo proposito Botsman e Rogers nel loro libro What’s mine is yours raccontano il dibattito che si tenne sulle lavanderie automatiche nel Regno Unito degli anni ’80. In quel periodo il partito ecologista inglese si trovò a constatare l’aumento dell’utilizzo di lavatrici private (che tra il ’64 e il ’92 passò dal 53 all’88%, mentre il 50% delle lavanderie automatiche chiudeva), con un conseguente aumento dell’utilizzo dell’acqua (+21,7%) e quasi due milioni di lavatrici da smaltire. Il partito ecologista a quel punto poteva chiedere di far tassare l’acquisto delle lavatrici o lanciare una campagna per convincere le persone a cambiare il loro stile di vita. Non percorse nessuna delle due strade perché temeva di alienare il consumatore senza ottener alcun beneficio.

Come fare allora indirizzare i comportamenti delle persone verso abitudini più sostenibili senza essere negativi o dogmatici? La questione è ancora attualissima e il professor Lahlou prova a dare la sua risposta. «Per affrontare il periodo di transizione bisogna offrire qualche vantaggio a coloro che decidono di intraprendere la strada alternativa. Risparmiare, costruire relazioni, ottenere prestigio locale o semplicemente aiutare gli altri, possono essere dei vantaggi competitivi. Certamente è meno comodo prendere la bicicletta piuttosto che la macchina, ma se questa è un’occasione per conoscere qualcuno, o per fare sport, diventa certamente più desiderabile farlo. Se si ordina un cesto di verdure da un contadino piuttosto che fare la spesa al supermercato e questo diventa  un momento interessante per condividere ricette o consigli, l’esperienza diventa il modo per ripagare la perdita di comfort». Provare per credere? Si veda come è stata risolta alla Brainwash di San Francisco la questione delle lavanderie, e come può essere più desiderabile portare i panni sporchi in una lavanderia automatica piuttosto che lavarli, stenderli e piegarli a casa propria da soli.

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