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Quelli che fanno affari con Facebook e Twitter

16 Novembre 2011

Quelli che fanno affari con Facebook e Twitter

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Una ricerca della Bocconi traccia un quadro aggiornato rispetto all'uso dei social network in azienda. Alcuni casi di successo

Walled garden, giardino chiuso. Qualche anno fa gli analisti di nuovi media ci abituarono a questa terminologia riferita alle prime esperienze di internet sui dispositivi mobili. Il termine fu adottato, ad esempio, per il rilascio delle prime sperimentazioni in Italia del Vodafone Live!, piattaforma che dai cellulari Vodafone permetteva di accedere ai servizi a valore aggiunto. Ci si collegava alla Rete, ma non troppo, perché non si navigava se non in un numero chiuso di piattaforme predefinite. Dal giardino chiuso del passato (ma forse ancora attuale, per alcuni è tale anche l’iPad) agli ambienti social degli ultimi anni il passo è stato straordinariamente decisivo: un’era geologica, che sui social network scorre con un tempo molto rapido. I dati e gli entusiasmi sulla cultura digitale in rete fanno comprendere quanto i media sociali oggi siano strategici per aziende multinazionali, per le piccole e medie imprese, per organizzazioni o gruppi di interesse di ogni sorta e anche per i vecchi media editoriali ricovertiti in nuovi media grazie al digitale.

Social media e imprese

Partiamo dall’ultima ricerca dell’Università Bocconi, elaborata dall’osservatorio business intelligence. I dati sono stati analizzati un paio di mesi fa e arrivano a coprire il mese di settembre 2011: non è banale considerare questo aspetto perché le istantanee in rete faticano a stare al passo coi tempi e diventano difficili da effettuare: troppo sfocate, se aggiornate al brevissimo termine, oppure troppo definite, ma datate e quindi non realistiche. Non è così per questa ricerca, che fotografa il ruolo dei media sociali per le imprese nostrane. All’inizio guardati con diffidenza e poco conosciuti, oggi i social network vengono considerati alleati preziosi anche per ingrossare il portfolio clienti: non servono più soltanto per attuare un dialogo coerente con la propria comunità di clienti, ma anche per vendere a nuovi potenziali compratori.

Così per il 76% delle oltre mille realtà intervistate, i social network sono ritenuti strategici per ricevere feedback e gestire le lamentele. C’è un rilevante 4% che si spinge oltre, affermando come sia disposto a cambiare strategia commerciale a seguito di commenti postati su Facebook. Dalla stessa ricerca emerge come il 39% delle aziende sia già posizionata online, mentre il 32% sia pronta a scendere nell’agone digitale investendo sui social network. C’è anche un 6% che ritiene inutile buttarsi sui media sociali e che Facebook, Twitter, LinkedIn non siano il modo giusto per interagire con la customer based. Ma è una percentuale minima, quasi irrisoria rispetto al 54% vede questi ambienti aperti e integrabili con le attività del customer care (call center in primis).

Consapevolezza (molta) e visione (poca)

Tra il dire e il fare c’è di mezzo una rete ancora poco conosciuta: quasi uno su cinque delle aziende intervistate (17%) non sa valutare l’efficacia di una campagna di viral marketing, il 24% delle imprese non sempre risponde ai commenti, il 43% non fa un accurato screening di ciò che si dice sui social network della propria azienda (il monitoraggio noto ai più come buzz marketing) e addirittura il 35% monitorizza i dati ancora manualmente. Due sono gli aspetti da evidenziare: la costante analfabetizzazione alle nuove tecnologie della classe dirigente, che non conosce gli strumenti da adottare per potenziare l’efficacia e in qualche modo per avere un buon ritorno d’investimento. E poi la mancanza di coraggio nell’ingaggiare figure specializzate (e anche iperspecializzate) che possano entrare in azienda, internalizzando le professionalità, o che possano collaborare con l’azienda in un’ottica di consulenza esterna.

Così afferma Andrea Albanese, ricercatore dell’Università Bocconi e autore del monitoraggio: «Nelle aziende italiane c’è una sottovalutazione delle attività di business intelligence con relativa reportistica online. Ciò significa che concretamente spesso il call center non sa dialogare con i clienti sul web. Inoltre l’impresa ha bisogno di rimodulare il proprio budget in questo settore: spesso mancano figure competenti su tecniche di web e social marketing e ci si affida ad agenzie tradizionali che annaspano su questi nuovi mercati». Ci troviamo di fronte all’annoso problema di mancanza di visione: si gestisce l’ordinario e mancano strategie a medio-lungo termine. «L’azienda, non avendo ancora una reale fiducia oltre che budget allocato, decide di ingaggiare risorse molto junior, specialisti della materia non ancora formati a tutto tondo per presidiare questi campi», precisa Albanese. Ecco, torniamo alle difficoltà di far comprendere alle imprese nostrane che un nativo digitale non è necessariamente una risorsa che possa presidiare con efficiacia lo spazio social dell’azienda.

Cultura social

Ciò che serve è un nuovo approccio social. Albanese è molto chiaro: «Non perché un cliente entra nella community dell’azienda o sulla fan page diventa necessariamente un amico. Attenzione: la logica amicale disorienta nel rapporto azienda/fornitore, che non deve essere sottovalutato». Rincara la dose anche un altro esperto, Andrea Boscaro, fondatore di The Vortex: società di formazione al marketing digitale. «Innanzitutto credo che in Italia ci sia stato un fagocitamento da parte di Facebook sugli altri social network: è stato tale il suo boom che, ad esempio, ha offuscato il ruolo e il potenziale di Twitter e questo vale tanto per le persone che per le aziende. È importante comprendere come Twitter non sia un sostituto di Facebook, ma un suo possibile complemento: Twitter non è un social network ma un information network».

D’altronde, restando su Twitter, in Italia i venticinque brand più popolari per numero di followers (Dolce & Gabbana, Ferrari, Gucci, Cavalli, Feltrinelli, Emergency) inviano meno di quattro tweet al giorno. E stiamo parlando delle eccellenze. Prima di aprire un account Twitter – l’ultimo passaggio che un’azienda dovrebbe effettuare – occorre mappare le possibilità di entrare in conversazione con una potenziale community e quindi con persone che già esistono sulla piattaforma di microblogging. «Prima c’è il monitoraggio di ciò che si dice di noi e anche su ciò che si dice sui temi affini: occorre fotografare la situzione per ingaggiare l’utente. Se crei un tuo account, devi avere un tuo palinsesto, un tuo piano editoriale. Quindi all’inizio l’attività è più reattiva che non attiva», conclude Boscaro. La differenza è sostanziale: Twitter genera flussi di comunicazione aperti tanto che, numeri alla mano, se 350.000 sono le persone in Italia che “cinguettano” con regolarità, a leggere i loro tweet ci sono oltre un milione e trecentomila navigatori.

Successi in azienda

Alcuni casi emblematici: uno che arriva dall’America e gli altri italianissimi. Oltreoceano uno degli esempi di multicanalità maggiormente vincenti nel mercato americano è offerto da Domino’s Pizza. In America questa azienda ha integrato la visione di un film on demand su Tivo con la possibilità di ordinare una pizza direttamente dal divano di casa propria. In questo senso la community si apre verso una diffusione del geotagging e verso la possibilità di integrare l’offerta con vere e proprie applicazioni pubblicitarie sugli smartphone. Dagli Stati Uniti all’Italia: Tua Assicurazioni è un bell’esempio di cultura social. «L’obiettivo è diventare la prima compagnia di assicurazioni “social” in Italia entro il 2012», così precisa Marco Paleari, responsabile marketing di Tua Assicurazioni, compagnia del gruppo Cattolica nata nel 2004 e che oggi conta su oltre 350 agenzie che gestiscono 200.000 clienti.

Da qualche settimana Tua Assicurazioni è presente con una pagina su Facebook e con specifiche linee guida trasferite alla rete delle agenzie ai fini di creare pagine locali. «Con la pagina istituzionale inviamo un voucher che consente – esclusivamente ai fan su Facebook – di usufruire di uno sconto su alcuni prodotti: nel concreto è possibile avere migliori polizze recandosi poi con quel voicher in una della nostre agenzie», afferma Paleari. Alcatel-Lucent, la multinazionale nata nel 2006 a seguito della fusione di Alcatel e Lucent Technology e oggi operante in 130 Paesi con 78.000 dipendenti, è oggetto d’indagine dell’Università Bocconi e al tempo stesso finanziatrice dell’osservatorio. Secondo Paola Pernigotti di Alcatel-Lucent soprattutto per un player leader di mercato nell’ambito del contact-center è fondamentale attivare un confronto in Rete. «I quesiti della community sono già in Rete e possono essere posti twittando, chattando e collegandosi al blog. I colleghi del nostro customer care sono consapevoli di questo aspetto», precisa Pernigotti.

Anche i vecchi media

Ma non solo le aziende guardano con interesse ai social media per fare business, anche certa editoria ha imparato a reinventarsi sui media sociali, pur arrivando da un background tradizionale, come può essere quello di una televisione locale. La storia di successo riguarda Roma Uno, emittente della capitale attiva dal dicembre 2003, con una programmazione autoprodotta del 91/92%  del palinsesto e un team di 32 risorse. «La multicanalità è una scelta obbligata, non soltanto coraggiosa. Occorre essere vicini al proprio pubblico in ogni canale di comunicazione». Così ha affermato Fabio Esposito, Amministratore Delegato di Roma Uno. L’applicativo i-Phone della tv locale è stato scaricato da 20.000 utenti. E c’è tutto: è possibile vedere i servizi, leggere i testi, fruire dello streaming video. L’idea è stata sviluppata dalla community di telespettatori: «Un nostro fedele telespettatore ci ha fatto un regalo: ha realizzato l’applicativo per i-phone e i-pad. Attualmente il dispositivo interagisce con tutte le componenti del web», precisa Esposito.

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